Tra pochi giorni ormai, il 18 maggio, si svolgerà in Israele la finale dell’Eurovision Song Contest, dove l’Italia non raccoglie una vittoria dal 1990 quando a trionfare fu Toto Cutugno con una canzone pressoché sconosciuta oggi da noi: si trattava della europeista Insieme: 1992, che avrebbe anticipato la nascita della Cee. Negli anni successivi abbiamo persino colpevolmente snobbato quella manifestazione che prende spunto proprio dal nostro Festival di Sanremo (per questo viene spesso chiamato Eurofestival comunemente) e ci ha premiati solo due volte (la prima fu con Gigliola Cinquetti). Quando siamo tornati a gareggiare abbiamo collezionato posizionamenti di bassa classifica (Emma e Michielin su tutti), convincendoci che, in fondo, se a una kermesse che fa del trash il suo fiore all’occhiello persino un Domenico Modugno arrivò ultimo, un motivo per cui avevamo messo da parte ogni ambizione europea forse c’era. Sono arrivate anche, però, importantissime conferme: il secondo posto di Gualazzi nel 2011, il terzo del Volo nel 2015, il quarto di Moro e Meta lo scorso anno, il sesto del superfavorito Gabbani due anni fa. In quei casi, ci siamo detti, l’Eurovision Song Contest é una manifestazione da rispettare: in fin dei conti speravamo nella vittoria di Gabbani per la furbesca presenza della scimmia nuda sul palco, con cui ci eravamo adeguati al clima decisamente folkloristico a cui il canto all’italiana è meno abituato. Quest’anno ci presentiamo secondo i pronostici in seconda fila alla griglia di partenza con Alessandro Mahmood, vincitore tre mesi fa a Sanremo con questa Soldi che sta letteralmente spopolando. Se il regolamento di Sanremo non vi piace, vi sembra complesso, senza una logica precisa, non dannatevi l’anima per quello dell’Eurosong: è dannatamente più complicato da comprendere, ai limiti dell’impossibile. Lì votano giurie di tutto il mondo, paradossalmente più esperte di quelle che proponiamo ogni anno al Festival, a cui si aggiunge un televoto che in genere funziona come quando all’oratorio si barava a nascondino per fare perdere i più antipatici e far vincere la propria schiera di amici: Francia (quest’anno favoritissima) e Italia non si scambieranno mai voti, che otterremo invece sempre da Albania, Svizzera, Russia e Israele.

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Soldi è una canzone brutta, basata su un tormentone che gira intorno a un’unica parola per cui solo una puntata dei Teletubbies può fare sembrare più imbecille il pubblico, che ora sta spopolando grazie all’imposizione delle radio e allo strapotere di Charlie Charles: questo è il primo motivo per cui dobbiamo sperare che Albania & co non ci regalino voti. Motivo del tutto soggettivo, si intende. Ne esistono altri, però, un po’ più importanti da un punto di vista sociale. Vincere, come detto, non porterebbe una canzone a essere necessariamente famosa in tutta Europa (chi conosce tutti i brani vincenti degli anni scorsi?) ma darebbe prestigio all’Italia che ha ispirato questo concorso a cui è fondamentale partecipare per rispetto della nostra storia: noi esalteremmo tantissimo un successo che porterebbe l’anno prossimo la manifestazione in Italia (Milano e Torino le città più accreditate a poter eventualmente ospitare l’evento), e più che la canzone ne trarrebbe vantaggio il cantante, ma in questo caso la sensazione è che per il bene di Mahmood sia meglio perdere. Che sia di Gallarate non ci piove, ma è incontestabile che sia uno dei nuovi italiani, e che per questo motivo sia già abbastanza strumentalizzato da una certa parte politica, salvo poi essere rivendicato anche dall’incoerenza dell’altra parte. La musica deve essere musica, lo ribadiamo: una vittoria di Mahmood lo lancerebbe suo malgrado come simbolo politico di un’Italia in questo momento divisa più che mai. Mahmood è un bravissimo cantante, uno di quelli che i vocalizzi li sa fare tenendo un grande controllo della sua estensione vocale, dell’intonazione e della ritmica senza alcun ausilio tecnologico: diamogli il tempo di crescere. Il brano con cui ha vinto a dicembre tra i Giovani, Gioventù bruciata, è già stato dimenticato da tutti, come tutte le Novità lanciate in quell’occasione da Baglioni: gioventú bruciata…dagli organizzatori. Evitiamo di bruciare l’artista Mahmood fossilizzandolo su un brano brutto, che non gli rende giustizia e lo fa sembrare più antipatico della realtà: evitiamo di farlo diventare un gioppino di ordine politico. E poi diciamocelo, vincere con Soldi ci smaschererebbe ancora una volta come il Paese con l’ossessione del denaro: siamo sicuri ci convenga? Oh, certo, dirá qualcuno, Mahmood non incita allo sperpero del denaro, ma la psicologia più spiccata ci insegna che quando si racconta qualcosa con disgusto si maschera un’ossessione, come la volpe con l’uva. Infine, aggiungiamo, si tratta di un brano tutt’altro che dal sound italiano, non che non si possa proporre una musica così, ma perché dovere sempre assoggettarci alle mode americane per tentare il successo, senza ricordarci che la melodia napoletana ha dato qualcosa, giusto qualcosa, alla storia della musica? Forse sarebbe meglio tentare la vittoria con qualcosa di prettamente italiano. Naturalmente, se Mahmood dovesse trionfare saremmo i primi a essere felici per un gradito ritorno al successo, ma poi aspettiamoci il peggio, perché da quel momento si sentirebbero tutti in diritto di affermare che la trap sia il genere musicale che piace in Italia, proponendola in ogni nuova produzione e sappiamo non essere così: funzionare non fa sempre rima con piacere. Ne abbiamo già troppa: preferiremmo essere il Paese del Trap, il caro Giovanni Trapattoni, non quello della trap di gente con capelli rosa che dice sia bello bere all’infinito omettendo i danni che l’alcol provoca ogni settimana ai giovani sulle strade. E poi diciamocelo, la trap non è musica: è un gioco, come le tastiere che si suonano da piccoli, ricche di suoni strani e deformati preregistrati. E quelli nessuno li ha mai definiti musica.

Massimiliano Beneggi