È protagonista nel film candidato a tre David di Donatello, Il sindaco del rione Sanità. Lo abbiamo visto e apprezzato settimana scorsa nella fortunata fiction di Raiuno, Mai scherzare con le stelle, appartenente ancora a una televisione di qualità che il protagonista della nostra intervista di oggi rappresenta sin dagli anni’90. Il suo nome infatti sarà indissolubilmente sempre legato al personaggio di Spillo, il simpatico bambino che si faceva venire ogni malanno per rimanere in ospedale piuttosto che tornare all’Istituto per orfani nella serie Amico mio. La ficton, andata in onda nel 1993 su Raidue con enorme successo (fu l’unico caso nella storia della televisione in cui il programma venne replicato immediatamente dalla settimana successiva all’ultima puntata), è celebre nella memoria popolare anzitutto per la sigla di Nicola Piovani (“Le stelle brillano come le lucciole sulla città”) e proprio per il personaggio di Spillo, senza il quale la storia non avrebbe avuto la stessa forza.

Adriano Pantaleo è uno degli attori napoletani più apprezzati sin da quando fu scelto da Lina Wertmuller per interpretare il ruolo di Vincenzino nel meraviglioso film Io speriamo che me la cavo. Oggi ha 37 anni, è padre di due bambini (Margherita, 8 anni e Giovanni, 2), nonchè marito innamoratissimo di Manuela. Non solo non ha mai smesso di essere un attore, ma molto probabilmente la parte più bella della sua carriera sta arrivando proprio ora. Reduce dalla tappa milanese al Teatro Pimoff, dove due settimane fa ha raccolto un ampissimo consenso di pubblico, Adriano continua a portare in giro per l’Italia il suo spettacolo Non Plus Ultras (il prossimo mese sarà a Torino), che con grande disponibilità ci ha raccontato restituendoci quell’affetto che nutriamo per le sue splendide interpretazioni. E nel frattempo abbiamo ricordato i suoi esordi di cui ci ha rivelato qualche aneddoto con lo stesso sorriso che conosciamo da tanti anni.

Foto di Federica Lesti

Adriano, partiamo subito dal teatro: il tuo progetto Non Plus Ultras è molto ambizioso.

Nasce dalla mia esigenza personale di spiegare il mondo del tifo calcistico. Sono da sempre tifoso del Napoli, anche se non ho mai fatto parte di gruppi organizzati. La sera della finale di Coppa Italia a Roma contro la Fiorentina nel 2014 ero allo stadio, ma solo dopo la partita fui informato che la persona assassinata prima del match fosse Ciro Esposito. Era un mio amico, con cui eravamo cresciuti insieme perdendoci di vista solo negli ultimi anni. Andai subito al Gemelli, seguii la sua agonia fino alla scomparsa due mesi dopo. Quando Ciro venne a mancare nacque in me un senso di responsabilità: volevo indagare i meccanismi che spingono le persone ad arrivare a tanto. L’ho fatto con quello che so fare meglio: il teatro. E’ iniziata così un’indagine teatrale, insieme a Gianni Spezzano, sulle tifoserie e su quel mondo sempre molto sconosciuto. Siamo arrivati, dopo quattro anni di rappresentazione, senza nessuna risposta particolare ma con tante informazioni in più e diverse da quelle che pensavamo già di avere su quella tematica. Non è uno spettacolo che prende una posizione: noi mettiamo in scena un tema più o meno conosciuto utilizzando un punto di vista insolito come quello dell’ultras.

Si tratta di un monologo che non parla solo di sport: ci si riferisce ai limiti con cui regoliamo la nostra vita.

Esattamente. E’ la storia di un ragazzo borderline che lavora nella reception di un albergo e incontra una hostess ad congresso. Scopre che è la figlia del più temuto capo ultras della curva del Napoli, Biagio ‘O Mohicano. Per fare colpo su di lei, quindi, cerca di arrivare al padre: in questo percorso di seduzione si ritrova così ad essere lui stesso sedotto dal movimento ultras e dalla sua mentalità. Alla fine dovrà fare i conti con questa passione totalizzante che spesso costringe gli ultras a compiere delle scelte importanti per la loro vita.

Ora tuo figlio Giovanni è ancora un pò piccolo, ma lo porteresti tra qualche anno allo stadio? Cosa c’è di sbagliato e cosa di giusto oggi nello stadio?

Mio padre mi portò allo stadio la prima volta quando avevo 7 anni, e da allora non ho mai smesso di andarci. In tutto questo tempo ho visto attraversare diversi momenti e tipologie di tifo, che è molto condizionato anche da come va la squadra. Porterei tranquillamente mio figlio allo stadio, anche perchè ora il San Paolo ha un impianto innovativo, che restituisce una condizione di sicurezza familiare. Certo non andrei in trasferta con le tifoserie organizzate nelle partite in cui c’è una rivalità storica con l’altra curva. Questo perchè lo scontro è qualcosa di previsto nel loro codice. Io naturalmente non ho mai appoggiato nessun tipo di violenza, ma ho scoperto che tra gli ultras esiste un codice etico, filosofico e comportamentale, la cosiddetta mentalità, che comprende anche tanti fattori positivi: un ultras è ultras anche nella vita. Non ruberebbe mai, aiuta il prossimo, molto spesso è apolitico al contrario di quello che si pensa. Tra gli ultras si trovano studenti, impiegati, operai: è difficile trovare persone con condizioni economiche e ideali politici diversi accomunati da qualcosa come accade per la vita da ultras. C’è una rete di collegamento e di solidarietà tra tutti gli ultras nazionali: sono stati tra i primi soccorritori volontari nelle grandi catastrofi, dalla ricostruzione del Ponte Morandi, fino al disastro ferroviario tra Andria e Corato, passando per l’alluvione delle Cinque Terre e il terremoto de L’Aquila. Non c’è mai stata nessuna menzione di questo da parte della stampa nazionale, ma il movimento ultras è molto più di quello che si pensa erroneamente. Tra loro esiste anche la regola per cui al primo ferito grave ci si ferma e si presta soccorso. E’ sbagliato dire che tutti gli ultras sono criminali. Abbiamo intervistato Daniela Stradiotto, presidente dell’osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive: anche lei ha confermato che è sbagliato ritenere il movimento ultras come qualcosa di criminale.

Foto di Federica Lesti

Hai incontrato difficoltà nel proporre uno spettacolo coraggioso come questo?

C’è sempre una grossa prevenzione rispetto a questo argomento, ma la cosa che più mi piace e ci sta gratificando è che tutti escono dal teatro arricchiti di informazioni su un mondo che tanti pensano di conoscere e che in realtà non si conosce. Non vogliamo dire che gli ultras sono tutti buoni, nè che sono tutti criminali: al contrario è nostra intenzione solo informare prendendo coscienza del fenomeno.

Una delle scene che trovo più divertenti di Io speriamo che me la cavo è il parapiglia che si creava tra te e un altro bambino che insultava Maradona. Cosa rappresenta per te Maradona? L’hai mai conosciuto?

Purtroppo non l’ho mai conosciuto, sarebbe un sogno se venisse a vedere lo spettacolo! Per Napoli e per i napoletani lui è qualcosa che va anche oltre la fede calcistica e lo sport. E’ stato un idolo, un’icona, quasi un Dio. E’ paragonabile a personaggi storici come Masaniello: anche Maradona in qualche modo fece una rivoluzione arrivando a Napoli in un periodo in cui la città era vista in un certo modo. Diede la possibilità di un riscatto alla città che arrivò così alla pari di quelle del Nord. L’ultras vede in tutto quello che fa qualcosa che va oltre lo sport, ovvero tutto quello che c’è nella cultura e nella storia della città: per questo Maradona rappresenta Napoli e la sua società.

Qualcuno sostenne che Io speriamo che me la cavo rappresentasse una Napoli troppo diversa dalla realtà mettendola in cattiva luce. A distanza di quasi 30 anni, pensi che quel film abbia aiutato Napoli a crescere o fu un rischio che si allontanò dalla verità?

Non credo si possa raccontare una sola Napoli così come non credo che quella del film fosse una che non esisteva. E’ una città che come poche altre al mondo è piena di sfaccettature, in cui si sono sempre incontrate culture diverse: a Napoli esiste tutto. All’epoca si decise di raccontare quella parte di Napoli, come oggi invece si sceglie di documentare la realtà di Gomorra. Nè l’una nè l’altra sono Napoli, ma sono due spaccati di Napoli, ahimè esistenti. Chi guarda Io speriamo che me la cavo forse pensa: tutti i bambini di Napoli sono come quei dodici del film. Io ricordo quel periodo storico di Napoli: è naturale che non sia tutto così, ma esiste anche quella situazione. La cultura deve parlare anche di determinati argomenti: l’artista deve sentire di potere esprimere quello che crede. Io ricordo quel periodo storico di Napoli: è naturale che non era tutto così, ma esisteva anche quella situazione.

Voi bambini eravate consapevoli di mettere in scena una situazione particolarmente delicata?

La bellezza di quando si è bambini è che si ha la fortuna di vivere tutto come un grande gioco: si gioca a fare quel personaggio. Come quello che gioca a fare il dottore o il pompiere io giocavo a essere il bambino che non andava a scuola ma lavorava, piuttosto che quello che stava in ospedale pur non andare in istituto. Non c’era la consapevolezza credo nemmeno da parte dei nostri genitori: le polemiche furono più che altro successive all’uscita del film, ma non si avvertiva alcuna tensione.

Però qualcuno non volle fare girare il film a Napoli.

C’è sempre stata una grande leggenda su questo: pare che a un certo punto delle persone chiesero dei soldi a Lina Wertmuller per girare a Napoli. Lei da grande artista quale è rifiutò e decise di girare il film tra Taranto, Bari, Andria, facendo finta si trattasse di Napoli.
E’ impossibile non parlare di Spillo. Recitavi a fianco di Dapporto ma anche di altri attori che sarebbero diventati importantissimi di lì a poco: Pierfrancesco Favino e Claudia Pandolfi. Cosa rappresenta per te Amico Mio?

Per me quello fu il lavoro in cui presi coscienza di quello che stavo facendo. Io speriamo che me la cavo fu in qualche modo sorprendente e anche travolgente, e solo quando mi vidi al cinema compresi meglio quello che avevamo fatto. Quando registrammo Amico mio compii solo nove anni mentre eravamo sul set, ma avevo già una consapevolezza diversa. Un film si girava in 6-7 settimane mentre per quella serie fui impegnato quattro volte a settimana per sei mesi: fu particolarmente impegnativo e allo stesso tempo molto bello Ero un pò la mascotte dei grandissimi attori: da Dapporto a Pagliai fino alla Gassmann. Ricordo le giornate a Cinecittà in cui giravo con la bici, mi conoscevano tutti: erano anni in cui il cinema italiano respirava un’aria molto più internazionale. Mentre giravamo Amico mio negli studi vicino si effettuavano le riprese di un film western: era come entrare in un parco avventure ogni giorno della mia vita.

Come ti scelsero per il ruolo di Spillo?

Castellano e Pipolo seppero che Lina Wertmuller aveva fatto un film con dodici bambini napoletani e allora le parlarono di Ci hai rotto papà, per il quale cercavano dei bambini. Lina, che stava finendo di montare Io speriamo che me la cavo, li ospitò al montaggio mi videro e mi vollero incontrare. Chiacchierai un pò con loro e mi scelsero. Durante quel film fui provinato per un episodio di Amico mio, non ricordo bene quale. Piacqui particolarmente al regista, Paolo Poeti, che decise di rivedermi provandomi sul personaggio di Spillo, inizialmente pensato per un bambino un pò più grande proprio per il grande impegno richiesto. Provavo una scena in cui strillavo mentre c’era Angela (la dottoressa Mancinelli, interpretata nella prima edizione da Katharina Bohm, ndr) che mi chiamava. Alla fine di quel provino rimasero tutti in silenzio: pensavo di avere sbagliato tutto invece evidentemente erano emozionati e catturati. Credo che oggi siano cambiati essenzialmente i tempi: c’è sempre meno tempo per dedicarsi a scene, personaggi e ruoli come si vorrebbe. Ecco che così ne risente la qualità della televisione. Gli attori infatti, dopo un pò, decidono di non fare televisione. Il teatro e il cinema danno la possibilità di migliorare, analizzare: i tempi sono più lunghi. Anche se poi un attore rimane sempre un attore: la differenza tra attore di cinema o teatro o televisione è un falso mito italiano.

Spillo era il bambino un pò scapestrato, mascalzone, ma anche quello che si abbandonava a gesti pieni di dolcezza e solidarietà nei confronti di tutti, che toccarono ovviamente l’apice con la conclusione della serie (alla fine della prima edizione rischiava persino di morire e veniva salvato dal dottor Magri e da Angela che si dichiaravano così il loro amore). Quale delle due caratteristiche preferivi di Spillo?

Era bellissimo il connubio tra questi due aspetti del personaggio, che è nel mio cuore e al quale sono accomunato anche da queste caratteristiche. Sono sempre stato molto attivo, faccio tantissime cose ma per l’aspetto familiare e personale mi piace dedicare il giusto tempo, coccolando e facendomi coccolare dai miei figli e da mia moglie Manuela. La forza di quel personaggio penso fosse proprio in quelle duplici caratteristiche, e così conquistava i più giovani come i più anziani. E’ stato il migliore amico di tanti bambini, il nipote di tanti nonni, il figlio di tanti genitori.

Il nome Spillo da dove arrivava?

Era nella sceneggiatura: era un ragazzino magrolino che andava dappertutto ed era difficile da trovare in ospedale. Come un ago in un pagliaio, come uno spillo.

Hai mai più rivisto Dapporto e Villaggio?

Con Massimo Dapporto ci sentiamo ogni tanto e ci vediamo a teatro. Con Villaggio non ci siamo rivisti molto, ma fu molto bello nel ’99 quando ero a Venezia. Lui era intervistato da Mollica, io mi ero fermato per salutarlo. Lui fermò l’intervista per abbracciarmi e ci salutammo con molto affetto promettendo di rivederci, anche se purtroppo ciò non avvenne. Sono cresciuto con una foto vicino al letto: siamo rappresentati io e Paolo durante le registrazioni di Io speriamo che me la cavo. Stavamo girando la scena fuori dal bar quando il maestro andava a prendere il bambino che lavorava dietro al bancone: faceva molto freddo e lui, che aveva un grande cappotto, mi disse “Vieni che ti scaldo io”. Nella foto c’è Paolo Villaggio in mezzo alla piazza con questo cappotto lungo, e sotto spuntano anche le mie gambine. Tutte le mattine guardavo questa foto come quella di una persona di famiglia. Quando venne a mancare provai un grande dispiacere.

Quante risate e quanta tenerezza in un solo film.

Stiamo lavorando, insieme al bravissimo regista Giuseppe Marco Albano, a un progetto che ha che fare con Io speriamo che me la cavo, di cui sarà il trentesimo anniversario l’anno prossimo. E’ indubbiamente un film che mi ha instradato: non solo non sarei mai stato attore, ma senza di quello non sarei l’uomo che sono, perchè sono cresciuto facendo l’attore.

Foto di Mario Spada tratta da ‘Il sindaco del rione Sanità’

Non deve essere stato tutto facile: quando penso alla volontà di potenza penso proprio a questa tenacia che si può avere nel perseguire la propria passione trasformandola in professione.

In effetti sono giovane ma sono già alla soglia dei trent’anni di carriera. Di solito le carriere sono fatte di trenta, quarant’anni, e a volte mi fa effetto pensare che io sono ancora agli inizi. In questi trent’anni ci sono stati momenti di grande crisi, dati dai passaggi della pubertà, dell’adolescenza e del diventare adulti. Tutto questo ha sempre confluito con il mio lavoro. Non posso immaginare la mia vita senza questo mestiere, che mi dà la forza di proseguire sempre con grande tenacia. Sono stato anche molto fortunato ovviamente a incontrare sulla mia strada grandi maestri come Mario Martone che mi ha diretto ne Il sindaco del rione Sanità, prima a teatro e poi al cinema di Venezia. Pressimamente lo potrete vedere anche su Rai Play.

Foto di Carmine Lino tratta da ‘Il berretto a sonagli’

Oltre al progetto legato a Io speriamo che me la cavo ce n’è un altro in arrivo…

L’anno prossimo con la Compagnia Nest saremo in scena con Il berretto a sonagli. Ne abbiamo fatto una rivisitazione con una donna e tre uomini che recitano le parti sia maschili che femminili.

Massimiliano Beneggi