Da ieri sera fino al 31 dicembre (eccetto dal 23 al 26) al Teatro Menotti di Milano è in scena la Trattoria Menotti, uno spettacolo decisamente innovativo creato da Emilio Russo e realizzato con attori formidabili che ci riportano a una Milano antica, a cui si rimane sempre più legati. E non è un caso, forse, se nonostante i rinnovamenti completi di Porta Nuova e City Life, ci siano zone come quella di via Tortona che restano tra le più frequentate proprio per avere mantenuto la loro originaria bellezza. Fatta di artigiani, botteghe e trattorie, dove non si usano le bacchette per mangiare, non ci sono piatti grandi quattro volte le porzioni, e ci si racconta la propria vita lasciandosi andare senza il timor sacro di essere fuori luogo parlando di sentimenti ed emozioni anzichè di affari. Chi lo vorrà potrà mangiare, a un costo differente, direttamente in teatro (o meglio nella Trattoria) durante lo spettacolo.
Abbiamo voluto farci raccontare questo spettacolo da Gianna Coletti, una delle più apprezzate attrici milanesi, cresciuta nelle compagnie di Mazzarella e Bramieri, da anni impegnata a teatro a raccontare proprio la sua vita, la sua città e, negli ultimi anni soprattutto, il rapporto con sua madre, alla quale ha dedicato anche un bellissimo libro due anni fa, Mamma a carico- Mia figlia ha novant’anni. Nel frattempo, negli anni, anche qualche partecipazione televisiva (su tutte, indimenticabile la signorina Adele, la spassosa vicina pettegola di Casa Vianello) e cinematografica (la prima fu nel ruolo della pianista spasimante di Elia, alias Celentano, in Il bisbetico domato).
Ironica, garbata, estremamente accogliente con la sua parlata molto rapida e assolutamente milanese, non risparmia l’articolo determinativo davanti ai nomi, usanza che purtroppo sta scemando insieme a tante tradizioni che la città meneghina rischia di perdere definitivamente se non farà qualcosa nei prossimi anni. D’altronde la volgarità della lingua è un’imperfezione che assume un tono persino poetico se presentata nel dialetto originario. Gianna nella Trattoria Menotti intepreterà Norma, e canterà anche Ti te se no, una delle canzoni meno famose a livello nazionale di Enzo Jannacci, tutta in dialetto milanese, che parla di un uomo non particolarmente ricco in giro in una città dove invece la povertà sempre dovere necessariamente essere mascherata per vergogna. E forse, ci dice la protagonista della nostra intervista, la situazione non è molto cambiata in questi anni.
Gianna, cosa troveremo in questo spettacolo, con un format completamente innovativo?
Il sottotitolo è molto indicativo: Metti un teatro a cena. La gente si accomoda al Teatro Menotti come se fosse in una tipica trattoria con i tavolini al posto delle poltrone, e le classiche tovaglie a quadretti rossi e bianchi (ora per l’occasione natalizia solo rosse). Emilio Russo ha avuto un’intuizione geniale: il palcoscenico non viene utilizzato, e così dove prima c’era parte della platea che è stata divelta, ora c’è una pedana dove avviene tutto quello che i personaggi portano in scena. E’ uno spettacolo a tutti gli effetti, ma non c’è nessuna presentazione stile “Ed ecco a voi…”. Gli attori sono commensali al pari del pubblico, con cui interagiscono come se tutte le sere si ritrovassero in questa trattoria che vive il problema dello sfratto. Non si sa bene in quale epoca lontana viva la trattoria, nè si vuole specificare quale sia. Si sa solo che è un’epoca lontana, niente è contemporaneo, a parte lo sfratto.
E’ un omaggio a una Milano che non c’è più.
Certo, si va da Jannacci ad Andreasi a Bianciardi, Beretta…Anche la cena è molto milanese: c’è infatti il menù fisso del barlafus: sfumatino di verza, ossobuco…Si ritorna alle tradizioni della trattoria vera e propria.
I personaggi raccontano la Milano degli ultimi, quella che cantavano anche Jannacci, Ivan Della Mea e i cantanti della mala…
Esattamente. Colonna portante dello spettacolo è l’orchestra, i Musica Da Ripostiglio, che ci supporta molto nel recitato e nel cantato. Sono una band stupenda, composta da quattro musicisti straordinari. Si ride molto ma ci sono anche momenti più intensi ispirati ai romanzi di Luciano Bianciardi: Paolo Bessegato interpreta infatti Luciano Mambretti, il filosofo intellettuale del gruppo incompreso, Marco Baldi è Dante, un barbone; io interpreto Norma, una donna di piacere un pò in età. Per tutta la sera i personaggi aspettano la Wanda dei Navigli, un personaggio realmente esistito: era un uomo che amava vestirsi da donna e che a Milano in tanti conoscevano. Gli habituè della trattoria quindi lo aspettano raccontandosi le classiche pirlate mentre lui tarda ad arrivare. Norma la ricorda spiegando che forse era stato uno dei boys della Osiris, e che aveva fatto parte delle claque di Milano, che si spostavano nei teatri e che funzionavano tantissimo negli anni ruggenti. E poi ci sarà Claudia Donadoni, nei panni Bijoux, una soubrette mancata che accoglie i clienti e li fa sentire subito a loro agio. A tirare le fila facendo da tredunion tra le canzoni e i vari interventi c’è il bravissimo Enrico Ballardini.
Ci saranno anche delle canzoni.
Io canto Ti te se no di Jannacci, una stupenda canzone che ci riporta all’atmosfera di Milano degli anni ’50. Faccio anche un pezzettino insieme alla cantante, che per l’occasione si chiama Manon, ed è la bravissima Helena Hellwig. Cantiamo una canzone di Luciano Beretta dedicata a una prostituta che ne ha viste passare di tutti i colori. Il tempo passa, si invecchia e c’è sempre qualche rimpianto per quegli anni che non torneranno più. Raccontiamo un pò questo nello spettacolo, senza cadere mai nel patetico.
I cambiamenti vissuti da Milano hanno fatto crescere la nostalgia per certi anni?
La nostalgia esiste a prescindere dai cambiamenti che la città subisce: a vent’anni tutto appare più bello, ma solo perchè eravamo più giovani. In realtà chi l’ha detto che fosse meglio una volta?
Insomma la nostalgia è l’eterno presente che ci portiamo dietro in un mondo che inevitabilmente cambia.
Certo, si è legati a una certa epoca perché si era più giovani, non necessariamente perché fosse migliore: i problemi c’erano anche allora, ma erano solo diversi da quelli di oggi. Milano è una città profondamente cambiata, che può migliorare ancora moltissimo. Si fa tanto per i meno abbienti, ma questa benedetta uguaglianza più ci sfugge di mano e più creerà malumori e stati d’animo contrastanti. Smettiamo di parlare di Milano come di una città dove tutto brilla completamente, perché nonostante tanti aiuti c’è in giro ancora tanta povera gente che dorme per strada. E’ vero pure che molti di loro rifiutano i ricoveri, dove ci vuole anche un certificato di sobrietà per entrare, che ovviamente questi poveretti non hanno mai perchè si sbronzano dalla depressione.
Schopenhauer diceva che per uscire dalla depressione cosmica l’unico modo è ubriacarsi. Questo spettacolo ci mostra anche questo stato d’animo di una ubriachezza morale in cui ci si rifugia per distrarsi dai problemi del mondo…
Il filosofo Mambretti è quello più lucido, dal pensiero più raffinato e più profondo: inizia sobrio e piano piano finisce per essere ubriaco fradicio. Capire come stanno davvero le cose porta spesse volte a fuggire da quello che ci circonda. Ci sono mille modi per fuggire da se stessi e da ciò che si fa fatica a reggere. La parte interpretata da Belsegato è una delle più complesse perchè è quella che fa riflettere di più.
Come può, secondo te, Milano conservare le proprie tradizioni se è una delle poche città dove non si parla nemmeno più il dialetto che tu invece conosci molto bene?
Bisogna mettere in moto, da parte delle istituzioni, della cultura e dei volontari, qualcosa che riporti le tradizioni, la storia di Milano. Ci dovrebbe essere un modo più leggero per parlare delle origini di Milano e della sua cultura. Va bene essere cittadini del mondo, ma questa mancanza del dialetto mi duole molto: io faccio tanti spettacoli teatrali dove parlo in milanese. Personalmente mi si apre il cuore già quando vedo le magliette che hanno scritte delle espressioni in milanese. Non è possibile auspicare che si parli solo in dialetto a Milano anche perchè sennò non ci capirebbe nessuno e non sarebbe ammissibile: mi piacerebbe però se anche in televisione non si parlasse solo il dialetto romano, contro cui non ho nulla, ma non lo nego, io sono orgogliosa di essere di Milano. Mi piacerebbe se i comici, protagonisti milanesi ogni tanto nei film citassero qualche parola in dialetto: mi accontenterei di qualche vocabolo, due frasi. Tutti capirebbero: è una questione di orecchio, poi ci si abitua e lo si comprende, come abbiamo fatto anche col dialetto napoletano.
Massimiliano Beneggi