Partiamo subito da un presupposto: in questa intervista non si parlerà del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, né quindi della loro presunta separazione. I tre si sono presi un anno e mezzo, due, di pausa in cui faranno cose singolarmente, e non hanno messo la parola fine al loro sodalizio artistico, questo lo sanno anche i muri ormai dopo le numerose interviste che chiedevano sempre la medesima cosa. Giacomo Poretti è ora protagonista a teatro con Fare un’anima, un monologo introspettivo e comico in cui l’attore riflette su cosa significhi oggi parlare di anima in un’epoca figlia esclusivamente del consumismo tecnologico. Ha ha senso parlare di anima se la parola anima non la usa più nessuno? Esiste ancora un umanità? In che direzione stiamo facendo andare la nostra vita? Lontano da Tafazzi, che si autoflagellava impedendosi di vivere la gioia anche nei momenti di festa, ma sempre con assoluta ironia, Poretti ora parla di un uomo che, inconsapevolmente, vuole vivere la felicità senza forse conoscerne il reale significato. Fino al 25 novembre sarà al Teatro Leonardo di Milano, ecco cosa è venuto fuori da questa insolita è decisamente profonda intervista, dove si parla dell’importanza di ascoltare, delle parole, che hanno un peso fintanto che si vuole dare valore a queste, ovvero fintanto che vengono utilizzate.
Giacomo, che spettacolo è? Cosa significa fare un’anima?
È uno spettacolo umoristico, um monologo scritto unicamente da me. È nato da una provocazione realmente accaduta. Un sacerdote quando nacque nostro figlio ci venne a trovare in ospedale e ci disse “Bene, avete fatto un corpo, ora dovete farne un’anima”. Quella frase, che può essere considerata bellissima o una banalità, ha fatto partire una riflessione. Mi sono chiesto: cosa significa nel 2018 fare un’anima? Appena ti nasce un figlio ti immagini di farlo diventare architetto, laureato, influencer, ma non pensi a un’anima. Mi sono immaginato l’uomo medio del secondo millennio che dice “Tanto noi abbiamo la tecnologia: se il mio algoritmo di consumo non mi ha mai consegnato un’anima, cosa me ne faccio?” E quindi ho ragionato su questo.
Alla fine con questo lavoro ti sei dato una spiegazione ulteriore di cosa sia un’anima?
Le parole hanno un destino particolare a cui siamo abituati, e la parola anima rischia di essere dimenticata: le parole devono essere pronunciate, sennò rischiano di finire sul dizionario che è spesso il cimitero delle parole. La parola anima non viene mai pronunciata. Alla fine quindi non dico cosa sia un’anima ma mi pongo il senso di cercare questa parola. Appena consenti alla parola anima di accedere ai tuoi neuroni, ti interessi anche di aldilà, di vita oltre la morte, chi sia l’autore degli algoritmi ecc..Si apre un mondo.
Esistono quindi fede e valori umani anche in questo ambiente che siamo abituati a vedere spesso come freddo e distaccato?
Quello che accade sul palco è una proposta, mi piace condividere col pubblico questa inquietudine. In pochi lo sanno ma è stato inventato un robottino di Amazon che fa quello che vuoi. Siamo attorniati da questo e ci sta sfuggendo il vero senso di umanità, che invece va coltivata.
Come è possibile fare un’anima, in questo caso crescere un figlio, lasciando che questa mantenga la sua peculiarità e non venga eccessivamente influenzata da chi fa questa anima?
È importante ascoltare e arrivare a porsi domande, non vivere acriticamente. Non possiamo dire a una persona di fare o di essere questo o quello. Se uno è curioso di quello che c’è intorno, fa nascere una domanda e ogni domanda chiama altre domande. Mi interessa suscitare domande, scuotere le persone. L’anima rischia di scomparire come parola, ma è anche impossibile da vedere. Anche i pensieri. Arrivano dal cervello, gli antichi dicevano dal cuore, ma dove stanno questi organi? Nessuno lo sa, se lo chiedi a un medico non ti sa rispondere. Però è importante porsi le domande per fare qualunque cosa.
Uno dei più grandi dilemmi filosofici ci pone di fronte a una scelta aveva ragione Pico della Mirandola a dire “homo Faber fortunae suae” o gli stoici ad affidarsi completamente al fato?
Lo spettacolo nasce ancor prima di questo dilemma. La situazione è ancora più tragica. Hai citato Pico della Mirandola e lo stoicismo: dietro c’è consapevolezza, un ragionamento, L’uomo moderno non si pone nemmeno quelle domande, oggi uno dice ‘sono qua punto e stop, quindi ho solo diritti”. Mi interessa con questo spettacolo che ci si faccia la domanda, penso ci sia intanto un’emergenza di parole. Ci sono troppe parole che non vengono mai usate, e a un certo punto ne elenco alcune anche molto curiose. Prima ci dovremmo fare le domande, poi uno può scegliere se seguire Pico o lo stoicismo, ma dobbiamo prima recuperare le domande “da dove veniamo, chi siamo..” parlando dell’anima e delle parole di cui non si parla mai.
Massimiliano Beneggi