È terminato sabato 30 novembre uno dei prodotti potenzialmente più interessanti e altresì più incompiuti degli ultimi tempi in casa Rai. Una storia da cantare, condotto da Enrico Ruggeri e Bianca Guaccero, doveva ripercorrere la carriera artistica di cantautori indimenticabili della nostra cultura, protagonisti che avessero raccontato l’Italia. Occasione sprecata.
Dopo tanta attesa creata intorno a questa novità televisiva, ecco tre puntate dedicate a Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Lucio Battisti. I tre autori più cantati di sempre, amatissimi e talmente popolari da essere troppo conosciuti dalla platea perché qualcun altro possa ergersi a maestro della loro storia, a meno che non lo si faccia con materiale e aneddotistica particolarmente rari da essere un’esclusiva. Tutto si è invece tradotto in una passerella di importanti ospiti che cantavano i brani dei tre autori: una di quelle imbarazzanti kermesse che non danno segni di originalità e lasciano anzi nel dubbio se quello a cui si sta assistendo sia un omaggio a un grande poeta o uno sponsor per l’ospite che dimostra di sapere cantare Battisti (Bennato tiene con tutto se stesso a unire Dolce di giorno con un suo brano, trovando il pretesto per autocelebrarsi). Missione fallita. Tre autori come De André, Dalla e Battisti sono talmente popolari da essere intoccabili, perché rovinare il ricordo con interpretazioni talvolta improbabili come Le Vibrazioni che cantano Mi ritorni in mente ? Battisti è già patrimonio di tutti, soprattutto quello della prima fase, in coppia con Mogol. Che omaggio è quello fatto a un artista inarrivabile come se la sua carriera si fosse chiusa a Una donna per amico? I quindici anni con Pasquale Panella non erano forse anche più interessanti per un pubblico che ha già sentito reiterate cover in questi venti anni?
Abbiamo riso tutti sulla gaffe di Ornella Vanoni che non ricordava le parole di Bocca di rosa, ma sarebbe stato più bello applaudirne un omaggio concreto che non sottovalutasse una poesia come fosse una marcetta qualunque.
Il problema di Una storia da cantare in effetti non è stato tanto nella qualità delle interpretazioni (Ranieri sembrava cantare Don Raffaè come se fosse stata scritta apposta per lui, Moro perfetto in Tu non mi basti mai, Vecchioni prezioso nella delicata Emozioni, Paola Turci unica nota rock di prestigio con i Decibel, lei in Quello che non ho, loro in Dieci ragazze) ma nella confezione di un prodotto approssimativo che doveva riuscire a contenere in due ore di trasmissione tanti ospiti. Così tutto è sfumato via di corsa, con pochi veri aneddoti, il romanticismo del vinile inserito da Ruggeri che si lasciava subito sovrastare dalla contemporaneità spesso per nulla generosa nei confronti di chi ha inventato la musica ben prima. Peccato, perché la conduzione di Ruggeri prometteva bene: reduce dalle trasmissioni televisive di qualche anno fa, e ancor di più da quelle radiofoniche dove ne Il falco e il gabbiano racconta ogni volta vite e segreti di grandi protagonisti da vero narratore quale è anche nelle sue inimitabili poesie da chansonnier, avrebbe potuto replicare una formula ancora innovativa per il piccolo schermo. Invece anche lui, bravissimo padrone di casa che non vuole eccedere sugli ospiti pur avendo voce e talento da insegnare a molti di loro, è stato inevitabilmente fagocitato dai tempi ristretti che, appena si godeva delle sue doti da intervistatore fidato e confidente, lo vedevano subito dover interrompere per dare spazio alle esibizioni. Lasciando la scena talvolta a una Bianca Guaccero che non si capisce ancora cosa sappia fare senza l’impellente necessità di esagerare, e nel dubbio prova a fare tutto.
Il messaggio del programma era chiaro: restituire allo spettatore la coscienza che tre grandi poeti faranno sempre parte della nostra storia, cantata anche dai più giovani. Se si fossero scelti altri cantautori sarebbe rimasta aperta la questione perché omaggiare certi artisti e non altri. Perché per esempio Endrigo e non Gaber, oppure Califano e non Jannacci e così via. Gli autori del programma non volevano sbagliare e allora hanno optato per tre indiscutibili mostri sacri. Indimenticabili, ma altresì già indimenticati. De André, Dalla e Battisti, però, andavano a quel punto omaggiati come si deve, senza fretta, raccontando qualche segreto in più, senza essere banalizzati. Ripetere il già noto è possibile solo quando si tocca sublime, come ha fatto Vecchioni, altrimenti vuol dire maltrattare la musica, e allora era meglio celebrare artisti unicamente indimenticabili: quei poeti di cui si è sempre parlato troppo poco e si continuerà a farlo troppo poco. Dal servizio pubblico è lecito aspettarsi qualcosa di meglio, ma si apprezza lo sforzo, che magari sarà migliorato in una seconda edizione. Mettiamola così: si doveva fare meglio, si poteva anche fare peggio o addirittura non essere fatto. Di sicuro Rouge e gli autori sapranno cogliere l’occasione per tenere tutto il salvabile e cambiare il resto nel futuro.
Massimiliano Beneggi