E’ morto Roberto Brivio, uno degli ultimi “Meneghini”: “Milan ha il cor in man”

E’ morto a 82 anni, a Monza, il cabarettista Roberto Brivio, ex componente dello storico quartetto I Gufi. Voce calda, risata sincera e discreta, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 1959, Brivio formò con Svampa, Patruno e Magni il celebre gruppo de I Gufi. Il quartetto duró dal ‘64 al ‘69 per riunirsi nel 1981 con una storica partecipazione a Sanremo.

Uno degli ultimi milanesi doc rimasti, campanilista e orgogliosamente lombardo. Ironico, con un modo unico di interpretare canzoni popolari, barzellette e comicità macabra. Per diversi anni fu anche l’interprete della maschera di Milano, Meneghino.

Un anno e mezzo fa, in occasione di uno spettacolo a La Magolfa di Milano, ci aveva concesso questa intervista tutta da leggere, e che riproponiamo qui sotto, in cui sottolineava l’amore per la sua città natale, e il rimpianto della fine dell’esperienza coi Gufi.

Era notizia di pochi mesi fa una possibile riproposizione di quella comicità, stavolta insieme a David Riondino, Flavio Oreglio e Alberto Patrucco. Come raccontava proprio in questa conversazione, di progetti ne aveva ancora tanti. Era un uomo felice. Grazie Roberto di averci regalato l’orgoglio di sentirci milanesi. Grazie di avere saputo raccontare questa splendida città. Grazie di avere fatto più bella Milano. Non rovinarla, sarà nostro dovere, anche per la tua memoria.

Riguardando vecchi sketch dei Gufi oggi non si prova quel sorriso che talvolta sembra una carezza di compiacimento a tempi ormai passati, ma si ride davvero. Cosa è cambiato in questi 50 anni?

Il cabaret si è avvicinato tantissimo all’avanspettacolo, e questo potrebbe anche essere un bene, lo si è dimostrato con Totò. Il problema ora è diventata la dispersione totale dalla parte autorale: si è voluto pensare solo a fare ridere dimenticando la vera forza dell’umorismo, che deve spaziare tra vari argomenti e non può essere solo con le parolacce o dei difetti della moglie, della zia ecc…Noi, come Gaber, Jannacci, avevamo una varietà di argomenti e di canzoni che non toccavano semplicemente il difetto fisico o il mero racconto riguardante la vita coniugale e sessuale. Il teatro del resto però è l’espressione dei tempi: se oggi viene richiesto di proporre questa comicità non ci si puo pensare su troppo, si fa questo e basta.

Eppure voi siete ancora attualissimi.

Con questo spettacolo infatti ricordo quello che abbiamo fatto, ma non in modo nostalgico: quello che cantavamo noi allora hanno ancora una attualità che qualcuno del pubblico ha definito sconvolgente. La gente riesce a commuoversi ancora oggi cantando con noi Non maledire questo nostro tempo, che faceva parte di Non spingete scappiamo anche noi, scritta da Lunari su musica di Patruno. Le canzoni macabre che ho scritto io all’epoca dicevano che portavano jella: erano una critica, una satira dei modi di essere della gente, senza fermarmi appunto ai difetti fisici. Ora le ripropongo in una veste quasi nuova.

Che rapporto hai avuto con la censura?

Quando scrivevo per la Rai c’era il manuale Cencelli, per cui certe parole erano assolutamente vietate e dovevo stare attentissimo. C’erano funzionari Rai che correggevano madre con mamma o viceversa perché secondo loro in quel momento la parola madre non era adatta a quello che facevi. Ho scritto moltissimo per gli spettacoli Rai per i ragazzi, poi andai alla radio per scrivere dei pezzi e fare delle regie. Quando nacquero i Gufi abbandonai tutto per dedicarmi completamente al quartetto, perché valeva la pena, avevamo qualcosa da dire. Passato il ‘68 diminuirono le cose da poter dire, perché era passata la protesta, e lì iniziò un po’ la nostra crisi, smussata nell’81 quando andammo a Sanremo e quindi su Antenna 3.

Cos’è la musica popolare per te?

Ci sono motivi popolari nati da grandi autori: La Santa Caterina tutti pensano sia una canzone da oratorio, ma se ne ascolti la musica è un pezzo di Mozart. Jannacci scrisse Ier seri pioveva, che è un pezzo dei Beatles; De André con Carlo Martello riprese la canzone goliardica, facendola egregiamente (Così come La morosa la va alla fonte di Jannacci, divenuta in seguito Via del campo, ndr). La canzone popolare quindi è grandiosa.

Un aggettivo per Svampa, Patruno e Magni?

I Gufi sono semplicemente inimitabili: il gruppo è inimitabile. Dico sempre ai giovani di fare cose nuove, di non imitarci: eravamo amici, con quattro caratteri completamente diversi. A un certo punto qualcuno se n’è andato (Magni, ndr), poi sono andati via gli altri due: e in quel caso l’aggettivo diventa traditori (ride). Non perché tradirono un gruppo che si stava affermando con i teatri sempre esauriti, dicendo delle cose. Tradirono un pubblico che si aspettava dai Gufi sempre cose nuove e ancora oggi mi dice “Ho insegnato le canzoni a mio figlio”. Questo affetto è stupendo e commovente.

Quindi nel 1969 per te gli argomenti non sarebbero stati esauriti, c’era ancora qualcosa da raccontare?

Assolutamente, se ne potevano dire tantissime altre, anche perche il mondo non è solo quello della piazza. Gaber è andato avanti per tantissimi anni con delle canzoni come Lo shampoo, che è un brano incredibile di protesta.

Un aggettivo per Milano?

Milan ha il cor in man: chi volta il cü a Milan il volta il cü al pan. Milano è una città fantastica, straordinaria: non lo dico perché sono milanese ma perché è una città che chiunque sente sua una volta che ci arriva, nonostante le avversità e le diversitá. Uno viene a Milano e improvvisamente si sente milanese: non l’ho mai sentito dire di nessuna altra città.

Tu hai interpretato la maschera di Meneghino per diversi anni. La famosa canzone di D’Anzi diceva “Sperem che vegna minga la mania de metes a canta Malano mia”. Non solo quella mania l’è arivada, ma in tutte le lingue del mondo rivendicano come loro la Madunina…

La canzone di D’Anzi la prendono sempre in giro però tutti la cantano, ed è sempre vera…

C’è una ricetta per conservare il dialetto a Milano o ormai è una metropoli troppo ampia perché il milanese possa essere usato anche nel futuro?

Ormai è evidentemente una metropoli ampissima, ha raccolto un sacco di persone. A me sarebbe piaciuto essere stato qua alla calata degli Unni: sono arrivati qua in un milione di stranieri, portando usi, costumi, canzoni parole. Le tradizioni degli altri popoli entrano sempre in quelle italiane, che si frantumano in quelle altrui: questo è il male degli italiani. Si vergognano tutti a dire di essere cattolici, di essere democristiani o comunisti. Non abbiamo la forza di riconoscere i nostri ideali: ci manca personalità. Ci sono tanti stranieri che vorrebbero sentire parlare il milanese e provano a parlarlo, pur non capendolo completamente, come avviene con tutte le lingue del mondo d’altronde. Dovrebbe stare a noi tenere vivo il dialetto.

Milano è cambiata radicalmente anche sotto il profilo artistico e paesaggistico, qual è la zona di Milano che preferisci?

Io sono nato a Porta Venezia, e ciascuno torna sempre un po’ nelle proprie zone. Sono un po’ più disorientato nella zona di Piazza Napoli perché non la conosco molto bene: avendo vissuto anche a Brugherio e Milano 2 posso dire che anche l’hinterland aiuta a fare ricrescere di nuovo la città.

Giovanni Verga diceva che finché uno canta ha il cuore contento. Quanto è contento oggi Roberto Brivio?

Sono contento della mia vita, della mia famiglia, dei miei figli, di essere a 81 anni ancora abbastanza in gamba per fare certe cose. Mi è dispiaciuto però non avere potuto fare altre cose che la mancanza di tempo o i troppi impegni mi hanno impedito. Confrontandomi anche con molti giovani di oggi, io posso dire di non avere avuto tutti quei contatti con altri che hanno molte persone che iniziano a fare gli attori. Tutti hanno lavorato con questo o con quell’altro artista…io posso dire guardandomi indietro di aver lavorato solo con me stesso: mi sono scritto i testi, ho recitato, ho fatto le regie…Ecco, questa è l’unica cosa che mi fa venire un po’ di rabbia.

C’è qualcosa che non è ancora stato raccontato in chiave comica che ti piacerebbe proporre?

È stato raccontato molto, e non è stato detto nulla. La comicità è tutta una ripetizione: il trucco sta nel trovare delle formule nuove per poter presentare quelle vecchie e farle gradire. Questo è uno dei compiti che vorrei ancora sviluppare, e ci sto pensando con la voglia di creare nuove battute e situazioni comiche su qualcosa che sto leggendo ora e che riguarda ovviamente sempre Milano.

Massimiliano Beneggi

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