Simona Marchini, una delle attrici più amate per la sua intelligente ironia e la sua verace empatia. Vera Signora dello spettacolo. Volto di una tv di qualità che ancora oggi si ricorda a distanza di tanti anni come modello a cui guardare (Piacere Raiuno, Via Teulada 66), è tra i protagonisti a teatro di Mine Vaganti, tratto dall’omonimo film, che vede la regia sempre di Fernan Ozpetek e che continua a riempire le sale. Da martedì 8 marzo al 20 marzo sarà in scena (con Francesco Pannofino, Iaia Forte, Carmine Recano, Erasmo Genzini) al Teatro Manzoni di Milano. L’abbiamo intervistata e ci ha raccontato così la nuova avventura.

Come dobbiamo aspettarci questa trasposizione teatrale di un film di successo, non facilissimo da immaginare sul palcoscenico?

E’ una trasposizione teatrale estremamente intelligente, perché ha rispettato persino le velocità di immagine del cinema con l’espediente della scenografia e dei suoi tendaggi, grazie a cui noi attori passiamo da una situazione all’altra. Insomma un ritmo cinematografico ma fatto dal vivo, quindi la gente è molto coinvolta. Oltretutto è uno spettacolo molto variegato per quel che riguarda temi ed eventi, come si sa già dal film: ci sono sentimenti, fragilità, ma c’è anche tanto da ridere.

Cos’hai pensato quando Ozpetek ti ha parlato di Mine vaganti a teatro?

Ho accettato subito per amore del ruolo che avrei dovuto interpretare, quello della nonna, che poi si rivela il personaggio chiave della storia. E’ lei che ha sostenuto per tutta la vita l’azienda e la famiglia stessa. Una donna molto evoluta, affettiva, sentimentale…e diabetica.

Foto Romolo Eucalitto

Il rapporto con il resto del cast?

Meraviglioso. Sono tutti molto affettuosi, teneri e disponibili. Tutta la compagnia è di ottima qualità e ogni sera siamo sbalorditi dal riscontro sul pubblico, che ha dimostrato di aver voglia di tornare a teatro. Io mi sento molto amata, mi fa grande piacere essere nel cuore della gente: non sono vanitosa, anzi sono sempre molto esigente nei miei confronti. Vedere, però, che il pubblico apprezza un personaggio che comunica sentimenti, credo sia un bel segnale. C’è bisogno di questo. E noi attori viviamo della gioia del pubblico.

Affrontare tematiche come quelle di Mine vaganti oggi è diverso da quanto poteva accadere undici anni fa quando uscì il film. Ciò che viene raccontato con ironia oggi è più compreso dal pubblico o, al contrario, potrebbe rischiare di offendere di più qualcuno?

Non percepiamo mai un atteggiamento critico o infastidito da parte del pubblico. Evidentemente, grazie a Dio, tutti i pregiudizi sono superati e siamo arrivati finalmente alla normalità. Ho sempre creduto ci volesse una legge per il rispetto della persona anzitutto, a prescindere dal sesso, accettando tutti per come si è. Dovrebbe bastare questo nella vita, senza eccedere in alcun senso. Bisogna tutelare i bambini al parco, per esempio, che non devono vedere persone aggrovigliarsi sul prato, siano queste etero o omosessuali: è arrivato il momento di riappropriarci del privato, perché alcune cose appartengono solo alla nostra intimità, senza il bisogno di sbattere tutto in faccia agli altri, proprio perché tutto deve essere normalizzato. Credo che questo concetto stia passando bene con lo spettacolo.

Il personaggio della nonna è, dicevamo, determinante. Perché ci rendiamo conto sempre solo tardi che gli anziani, nella loro saggezza, sono quelli che davvero ci danno le soluzioni?

Gli anziani hanno avuto un’altra vita, altri valori, pur non risparmiandosi nella contestazione sociale. Le trappole sono state la droga e il denaro, nonché l’illusione che questi portino al potere. La libertà è sentirsi persone rispettate, invece sono passati messaggi sbagliati.

Per esempio?

Il denaro è diventato un valore assoluto, qualificando o squalificando nella società tipicamente anglosassone. La volgarità del denaro si è aggravata mano a mano in questi ultimi cinquant’anni, con la manipolazione della pubblicità e delle immagini. La prima volta che vidi Colpo grosso per puro caso mi chiesi: “Che succede?”. Sono stati proposti modelli devastanti, per cui tutto diventa materialismo puro. I ragazzini si svendono con i social, dove non esiste un codice etico. Io voglio che i giovani siano liberi di scegliere, non di distruggersi. Soffro moltissimo di questo: che vuol dire essere followers di qualcuno che ci dice come mettere il rossetto, finanziandolo e facendolo diventare personaggio?

Si rischia insomma che la cultura sia atrofizzata per dare spazio a questi social che non danno alcuna informazione ma ci fanno solo sbirciare dal buco della serratura, con superficialità.

Qualche anno fa un ministro disse “Con la cultura non si mangia”. Così fu seppellito un concetto fondamentale. La cultura è un modo di stare al mondo: vuol dire educazione, salutare l’altro, condividere, avere gli occhi per vedere la bellezza del nostro Paese. Invece abbiamo persino tolto la storia dell’arte dalle scuole.

Le scuole di teatro hanno un valore?

Quelle vere sì, assolutamente.

Quindi vuol dire che però esiste anche qualcuno che ancora le considera. C’è speranza per il futuro.

Per fortuna sì. Soffro molto per la manipolazione dei ragazzi di oggi, che devono essere invece il futuro della vita, quindi ho un progetto che doveva partire già tempo fa ma poi è stato interrotto dalla pandemia. Incontri di attività creative per i giovani, nonché con i genitori circa il danno della tecnologia al cervello bloccandone i neuroni. I più grandi pedagogisti hanno sempre sottolineato l’importanza dell’attività creativa: infatti i bambini più felici sono quelli che cantano, ballano, si muovono. La parte sinistra del cervello deve essere viva, sennò si impedisce un’evoluzione sentimentale ed emozionale dell’essere umano.

Se la vita di Simona Marchini fosse una canzone quale sceglierebbe?

Ho sempre amato tantissimo le canzoni francesi. Sceglierei Edith Piaf: Non je ne regrette rien. Non rimpiango niente perché ho vissuto la vita nella pienezza del mio cuore. E’ la canzone che mi rappresenta di più.

Massimiliano Beneggi