Fino al 16 ottobre, al Teatro Parenti di Milano, è in scena L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo. Lo spettacolo, tratto dal best seller di Katharina Volckmer (edito da La nave di Teseo) è diretto da Fabio Cherstich e vede sulla scena la bravissima Marta Pizzigallo.
Un tempo uno spettacolo così sarebbe stato trasgressivo, oggi è sicuramente innovativo e come sempre il teatro, capace di offrire molteplici spunti interpretativi, si conferma la migliore cornice per progetti come questo. Merito della splendida penna della Volckmer, capace di trasmettere, con ironia e un linguaggio più che mai scorrevole, il racconto di una donna che diventa uomo dopo una vita travagliata e piena di sensi di vergogna per cose di cui non ha colpe. Merito del Teatro Parenti che ha prodotto questo spettacolo, credendoci in un momento in cui la parola fascismo tanto fa paura a qualcuno quanto è diventata via via meno bandita. Merito della fantasiosa regia di Cherstich. Merito della stessa Pizzigallo, che ci racconta così lo spettacolo in questa intervista.

Marta, qual è stata la reazione del pubblico in queste prime settimane di spettacolo?
Ho notato che la platea è fortemente emozionata e questo un po’ sorprende anche me! Vedo gente toccata e coinvolta emotivamente, e al tempo stesso si lascia andare a qualche risata, anche perché il testo fortemente dissacratorio lo permette. Certi temi risuonano in questo momento storico, ma non solo sul lato politico: c’è qualcosa di universale che parla alle coscienze. E’ una storia che va oltre la transizione di cui si racconta.
Ecco, questa è una storia che narra la difficoltà anzitutto a trovarsi in una situazione di disagio, tra le paure di essere sbagliati e il desiderio di essere quello che si vuole.
Esatto, è una storia che appartiene a tutti. Ciascuno di noi ha la capacità di ricostruirsi e riparare. Al di là del cambio di genere, la cosa che credo sia fondante di questo spettacolo è proprio questa: tutti nasciamo o ci ritroviamo in situazioni date, che non abbiamo scelto. Ci facciamo carico di sovrastrutture sociali e culturali senza che le volessimo. Fino a che non ci facciamo delle domande su queste e non intraprendiamo un percorso di consapevolezza sulle cose, spesso viviamo nelle bugie. L’unico conforto che possiamo trarre nella vita è quello di sentirci liberi dalle nostre bugie. Finché non ci guardiamo dentro, con la capacità di decostruire o demolire per ricostruire qualcos’altro, non possiamo andare avanti con serenità.
Il titolo è molto provocatorio, non viene percepito in una volgarità dal pubblico?
Qualcuno in effetti si ferma a quello, ma di fatto il linguaggio scandalizza in modo superficiale. La vera provocazione di questo testo non sta nel linguaggio ma nel significato che passa.
Cos’hai pensato la prima volta che hai letto il libro della Volckmer?
Mi è sembrato un po’ diverso: rivoluzionario e semplice al tempo stesso. Credo che l’autrice abbia fatto un match vincente mettendo insieme il binario storico e quello sociale. Ancor più che sul palcoscenico, nella lettura del libro c’è una parte di mistero iniziale: è stata la sfida maggiore da portare avanti nella trasposizione teatrale. Credo che la regia di Fabio abbia saputo perfettamente affrontarla.
C’è un climax empatico che via via svela il mistero fino ad arrivare alla transizione della protagonista. Questa empatia oggi è attesa, forse qualche anno fa sarebbe stata più sorprendente?
Forse sarebbe stata capita in una maniera diversa. Sicuramente a Milano siamo più stimolati in questo senso, è una città molto aperta. Credo che, tuttavia, ancora oggi questo spettacolo mantenga comunque l’aspetto della sorpresa. Chi viene a teatro probabilmente sa già che si va a parare lì, però rimane fino all’ultimo sempre un irrisolto rispetto al fatto che si parli di un piano reale o irreale. A volte perdiamo la percezione di quanto labile la nostra condizione attuale: oggi c’è attenzione su un argomento, domani non si sa. Dunque mi piace dire che anche l’argomento della transizione non è nulla di scontato nemmeno oggi.
Cosa ti appassiona di più nell’interpretazione di questa giovane donna?
Il viaggio che fa dentro se stessa. Tutto il testo si focalizza sul viaggio più che sulla meta. L’atto di liberazione finale non sarebbe possibile se non ci fossero tutte le fasi precedenti a esso: oggi come oggi in tanti danno risposte e in pochi si fanno domande. Questa donna se le pone guardandosi dentro.
Massimiliano Beneggi