Possiamo dirlo apertamente, la prima puntata di Che Tempo che fa è un mezzo flop. Al debutto su Nove la trasmissione fa solo il 10.5% di share. Se la Rai non ha fatto proposte per aumentare lo stipendio ai conduttori del programma, forse c’è più di una ragione. E dovremmo essere contenti di non vedere più sprecati così i soldi pubblici. Ma vediamo perché.

“Siamo ancora noi! Benvenuti a Che Tempo che fa!”: dietro al saluto entusiastico di Fabio Fazio al debutto su Nove, si nasconde fin troppa verità. Il programma è veramente solo traslocato da Raitre alla tv commerciale: tutto è ancora identico a prima. Deluso chiunque sperasse in qualche tocco di originalità da parte di un conduttore che di tanto in tanto ha dimostrato di sapere rinnovare la televisione. Qualche cambiamento era lecito aspettarselo, per molte ragioni. Anzitutto lo storico cambio di azienda; poi la pubblicità dirompente per tutta l’estate e arrivata persino sui cartelloni delle strade come a indicare l’arrivo di chissà quale novità. Infine l’età stessa del programma: 20 anni esatti, di cui ormai già otto col tavolone finale. Un minimo, ma percettibile, cambiamento non avrebbe guastato.

Foto da Instagram

Invece no. Che tempo che fa è ancora uguale in tutto per tutto. L’occasione di creare qualcosa di diverso è stata persa sin dalla prima puntata. A cominciare dallo studio: stessa conformazione a cui eravamo abituati, è solo leggermente più stretto lo spazio tra il tavolo e la platea. Gli argomenti seguono l’attualità come sempre, con la consueta capacità di Fazio di intervistare, coi suoi modi gentili e le sue indiscutibili competenze. Purtroppo, però, non si riesce a togliere di dosso quell’aria un po’ dismessa da cane bastonato e insicuro. C’è anche quel fastidioso microfono a gelato, che non si capisce perché si ostina a portarsi dietro nonostante sembri più un intralcio alla conduzione che un aiuto. Forse dipenderà da fattori emotivi, ma sembra una coperta di Linus imbarazzante almeno quanto là standing ovation che il pubblico in studio riserva al presentatore. Nemmeno fosse Tortora o Castagna, che tornavano (con ben altre storie) in tv dopo tempi molto più lungi di tre mesi.

Con Che tempo che fa ritroviamo anche i soliti protagonisti. A cominciare dagli ospiti. Riecco Michele Serra col suo iniziale monologo moralista, Roberto Burioni -virologo di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza -, Liliana Segre, Ornella Vanoni, Gialappa’s Band. Al tavolone mancano solo il vino, per dare almeno un senso alle risate esagerate e a tratti incomprensibili, e il buon saggio Gigi Marzullo, “sostituito” da una delle comparse di Nino Frassica. Ci sono anche lì i soliti che si ritrovano come un gruppo di amici la domenica sera: Paolantoni, Ferrini, Maionchi, Ventura, Forest. Ridono come pazzi su cose che francamente dopo otto stagioni costruite con identico impianto hanno stancato.

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Paolantoni arranca sempre a inventarsi qualcosa che possa essere divertente (non lo fa nemmeno a Tale e Quale, dove più che vestirsi da donna con voce stridula non combina). La Ventura si ostina a cantare, senza riuscire a essere nemmeno un po’ comica con le sue stonature che infastidiscono come poco altro. Si salva la Maionchi, unica che non ha bisogno di ricorrere ad artifici spettacolari per risultare simpatica. Bene anche Frassica, surreale e infinitamente comico (ma pure lui sempre uguale, nemmeno la sigla di Novella Bella è cambiata). A parte lo slancio di Filippa Lagerbäck a condurre persino in piedi, si ha il sapore di un già visto che lascia impietrito il pubblico, costretto a domandarsi perché abbia scelto di riguardare una cosa a cui è modificato solo il logo della rete.

Il nuovo Che tempo che fa ha cambiato azienda, ma di nuovo non ha davvero nulla. Il pubblico ovviamente se ne accorge e se aveva smesso di premiare con gli ascolti il programma già su Raitre, non si vede perché gli autori immaginassero un trionfo sul Nove mantenendo tutto uguale. Altroché numeri da grande trasmissione. Non si è fatto niente per cercarli, accontentandosi di poter dire “Siamo in doppia cifra”. Il 10.5% è ben lontano dal 16% che conservava puntualmente qualche anno fa.

La prima puntata destava molta curiosità che andava sfruttata meglio e che meritava maggiore attenzione. Quel che non è stato disatteso era già preventivato dovesse accadere: le frecciatine alla Rai naturalmente ci sono state, proseguendo quanto già fatto nell’ultima puntata della scorsa stagione. L’astio vittimistico continua, come le ripetute ed evitabili volgarità della Littizzetto. La novità non esiste. I cartelloni pubblicitari hanno sponsorizzato per settimane una trasmissione uguale a se stessa e in onda da vent’anni: come se vedessimo in giro cartelloni pubblicitari di C’è posta per te o Ballando con le stelle.

È cambiato solo (purtroppo) chi gestisce la pagina social, con stories e post messi in rete confusamente senza ordine cronologico. Col coraggio persino di mettere didascalie come “tutto uguale, tutto diverso”: mah. È già il secondo svarione di chi gestisce quella pagina: meno male non lo paghiamo noi.

Insomma il debutto di Fazio e Littizzetto sul Nove è un flop, anche se loro diranno il contrario. Si ripete quanto accaduto nel 2009 con Fiorello a Sky. Ossia, chi vuole parlare di successo fa riferimento ai risultati consueti della rete (ed è indubbio che per Nove sono numeri importantissimi), ma chi vuole essere obiettivo non può prescindere dal confronto con gli altri canali. Se si parla di nuovi poli televisivi bisogna arrendersi gli stessi numeri degli altri. E qui decisamente non ci siamo.

Fazio l’aveva studiata anche bene, pensando alla prima puntata del nuovo Che tempo che fa il 15 ottobre, quando il campionato è fermo e il calcio non poteva togliere ascolti. Non aveva nemmeno una concorrenza spietata. Eppure il pubblico ha scelto altro per il primo appuntamento ed è destinato a diminuire. Le idee originali di Fazio sono tramontate, quindi forse anche la tv. Per la cronaca, il titolo della trasmissione continua a riprendere quello di uno storico programma metereologico Rai. Anche se non lo vogliono ammettere, Fazio e compagni campano ancora grazie alla storia del servizio pubblico. Di originale non c’è davvero niente.

Massimiliano Beneggi