Giuseppe Povia si candida per Sanremo 2024. Settimana scorsa, in un’intervista su Rai Radio 1, il cantautore milanese ha annunciato la sua intenzione di tornare su quel palcoscenico che non calca dal 2010 e con cui ha sempre avuto un ottimo rapporto. Almeno fino a quando gli è stata concessa la possibilità di esserci.
Povia ha all’attivo tre partecipazioni sanremesi con cui ha ottenuto nell’ordine una vittoria (Vorrei avere il becco, 2006), una piazza d’onore (Luca era gay, 2009), un decimo posto (La verità, 2010). A queste si aggiunga quella mancata nel 2005, quando divenne ospite fisso (ma anche vincitore morale) con I bambini fanno oh, squalificata prima della kermesse per essere già stata cantata in pubblico. Il brano fu quindi trasformato nell’inno di una campagna di solidarietà per i bambini del Darfur. Insomma per cinque anni si è sentito spesso il nome di Povia nel tempio della musica che conta. Poi il silenzio. Per avere notizie su Povia ci si è dovuti arrabattare da soli: e meno male, almeno in questo senso, ci sono i social.

Negli ultimi tredici anni Povia ha continuato a comporre musica, cantando le contraddizioni della società. Raccontando le dinamiche di una politica italiana che raramente ha avuto il coraggio di difendere il proprio Paese, quasi per la paura di offendere radici culturali diverse. Povia non ha mai smesso di interpretare melodicamente il pensiero di tanti.
Ma perché nessuno ha più parlato di lui, che evidentemente tanto ha ricevuto ma altrettanto ha dato alla musica italiana? Semplice, si è schierato dalla “parte sbagliata”. Ossia, non ha seguito lo schieramento di quegli artisti radical chic, che da sempre mantengono il monopolio sulla musica.
Dopo che Povia si pronunciò contro la legalizzazione della cannabis, tanto cara alla sinistra, venne considerato un avversario da tanti colleghi. Il definitivo marchio di “pericolo sociale” se lo guadagnò chiaramente quando compose Era meglio Berlusconi, in cui ironizzava su tutte quelle coalizioni che presumevano di migliorare il Paese e invece lo avevano immobilizzato.
Sì, Povia si è schierato e non è il solo ad averlo fatto. Ma, nell’Italia che da sempre considera cantautori di rilievo solo quelli che intonano col pugno chiuso, uno come lui non ha più trovato spazio nella discografia che conta. È notizia di pochi giorni fa che un suo concerto a Lucca, previsto per dicembre, è stato annullato. I temi delle sue canzoni non sarebbero graditi. Povia ormai ha fatto il callo sulle strumentalizzazioni delle sue parole tradotte in musica.

Quando cantava la storia di un uomo diventato eterosessuale l’argomento non era ancora così caldo, ma bastò a farlo etichettare da qualcuno come omofobo. Quando parlava di eutanasia, veniva accusato di essere inopportuno. La sua difesa per la cultura italiana è stata più volte attaccata quale xenofoba. Insomma, chi più ne ha più ne metta.
Ma non erano stati proprio i sinistroidi a insegnarci, dalla fine degli anni ‘60, che i veri cantautori non devono cantare solo parole d’amore, bensì rivolgersi anche e soprattutto ai temi sociali? Quante accuse di fascismo hanno dovuto sopportare Battisti e Baglioni, rei di avere composto poesie che non parlavano di okkupazioni e scioperi negli anni in cui andava di moda la canzone di protesta? Enrico Ruggeri dovette persino giustificare qualche anno fa un suo brano che inneggiava al Vate D’Annunzio. Per non parlare di Anna Tatangelo, che tra un po’ doveva chiedere scusa per aver cantato a una festa di Fratelli d’Italia, o di Pupo, la cui Su di noi fu proposta un anno fa nella campagna elettorale di Meloni. Guardati con sospetto anche Cutugno e Albano, troppo vicini al Cavaliere secondo molti. Dipinta come “oltraggiosa” Laura Pausini che, per rimanere neutrale, si rifiutò di cantare Bella Ciao su una tv spagnola.
È una vecchia storia: chi non canta pubblicamente dalla parte leninista, viene messo in castigo. In qualunque epoca, perché la dittatura musicale di sinistra non conosce cambi di governo.
Ora Povia vorrebbe tornare a Sanremo. Non è certo l’unico a farlo, specie dopo le edizioni di grande successo degli ultimi anni. Ergo, potrebbe anche non essere scelto da Amadeus tra i tanti candidati. Il sospetto su quanto accaduto in passato, però, rimane. Possibile che da tredici anni non si trovi più uno spazio all’Ariston per un cantante come Povia, che al contrario di altri non usa vittimismo e dichiara solo ora di provare da tempo a gareggiare a Sanremo? Siamo sicuri che la dittatura musicale non sia ancora in atto? La cultura musicale italiana, in fondo, è storicamente quella fondata su melodie. Non certo la trap imitata dagli americani, per inneggiare spesso a violenze e comportamenti poco edificanti. Sarebbe dunque il caso di lasciare spazio a chiunque, con il nostro inconfondibile e pur rinnovato stile artistico, possa raccontare l’amore e certe verità sociali. Magari anche controcorrente. Sicuramente libere e rispettose.
Ecco, Povia al Festival sarebbe un bel segnale, anche per dimostrare che la musica non deve avere nessun colore, se non quello delle sette note.
Massimiliano Beneggi