Fu uno dei film cult in grado di segnare un’epoca, amatissimo ancora a distanza di 32 anni dalla sua uscita al botteghino, dove incassò oltre sei miliardi e mezzo di vecchie lire. Le sue battute sono conosciute a memoria dai fan di Renato Pozzetto, esattamente come quelle de Il ragazzo di campagna. Quando parliamo di Da grande, citiamo il più surreale film del comico lombardo, quello che più di ogni altro sa farci ridere esattamente con la tecnica da sempre tipica dei clown: guardare il mondo con gli occhi di un bambino per stupirci e osservare i dettagli che sfuggono alla sempre indaffarata età più matura.

Da grande è una bellissima favola, dove le risate si mischiano con l’emozione e l’empatia di quante volte da bambini si sarebbe voluti diventare grandi all’improvviso. Una volta cresciuti, ben prima di quello che si immaginasse, si vorrebbe tornare piccoli, senza problemi e con i genitori sempre pronti a togliere ogni pensiero, in ogni caso. E infatti si arriva a somigliare ai propri genitori, che per quanto possano sbagliare rappresentano sempre il miglior modo di sbagliare che si possa conoscere e ripetere. Una trama che, per uno strano destino, fu in qualche modo troppo simile quella di Big, film con Tom Hanks girato pochi mesi dopo.

Nel film, Marco è un bambino timido, sbeffeggiato dai compagni di classe e persino dalla sorellina più piccola con cui in realtà si vuole molto bene e che non a caso è l’unica a scoprire il magico segreto del fratello. Quando i genitori (Alessandro Haber e Ottavia Piccolo) gli fanno la festa di compleanno con formalità senza nemmeno pensare se gli possa piacere la torta e senza regalargli il Lego grande promesso, Marco invoca la volontà di diventare grande ed ecco che improvvisamente da bambino diventa il grande Renato Pozzetto. Un bambino nel corpo di un adulto: una prova d’attore incredibile per Pozzetto, una risata continua per il pubblico. E naturalmente, la voglia di rivedere subito quel film sarà già emersa in voi a questo punto, memori della scena del capo dei vigili o delle pipì per strada mascherate male come delle pettinate.

A distanza di 32 anni abbiamo voluto intervistare Ioska Versari, ovvero Marco da bambino. Per ovvie ragioni non si incontrava mai sulla scena con Pozzetto, ma ci racconta con entusiasmo come visse quel film. Figlio di attori, fu spinto sul palco a soli 3 anni in uno spettacolo di Pirandello dove ci racconta che, dimenticando la sua battuta, prese delle patate che c’erano sul palco e le tirò contro il pubblico. Un esordio decisamente burrascoso. Dopo l’esperienza di Da grande, la prima così importante, recitò nello stesso anno anche ne La famiglia di Ettore Scola, ma dopo pochi anni abbandonò il cinema. Oggi, 43enne, è produttore musicale, e proprio ieri ha cominciato la nuova stagione di X Factor, nel ruolo di producer per la squadra di Mara Maionchi. Ha le idee chiare, le ha sempre avute, sul futuro. Autoironico, simpatico (doti non richieste e non necessarie ma espressione di grande intelligenza morale, che è una qualità sempre più rara e per questo preziosa), competente: Ioska ci racconta la sua esperienza di Da grande e fa un punto sulla produzione musicale di oggi, senza occludere le porte a nessun genere.

Che esperienza fu per te Da grande?

Fu la più importante esperienza divertente. Arrivavo da alcune esperienze di pubblicità e di film dove mi davano sempre ruoli drammatici: una volta ero figlio di un mafioso, un’altra volta dovevo piangere, urlare…Quando mi proposero Da grande chiesi: “Si tratta di un film drammatico?”. Quando mi dissero che era una commedia non mi sembrava vero: era già divertente il fatto che mi avessero finalmente chiamato per un ruolo diverso.

Qual è la scena che ti divertì di più girare?

Sicuramente un paio di scene, una in casa e una all’esterno, in cui dovevo chiamare mia sorella, Silvietta, perchè mi seguisse. Lei (Gaia Piras, ndr) aveva 4 anni, e con il suo bel caratterino e faceva interrompere continuamente la registrazione: “Non mi chiamo Silvietta, mi chiamo Gaia”. In effetti aveva ragione lei! Tentarono in tutti i modi di convincerla e spiegarle che si trattava di un nome solo per il film, finchè a un certo punto il regista disse “Inventiamoci questa cosa che si vuole chiamare Gaia!”. Era l’unico modo per portarsi a casa le scene. Questo è un aneddoto che sanno solo quelli che erano sul set.

C’è un’altra scena che ricordi particolarmente?

Quando mia madre (Ottavia Piccolo, ndr) mi sgridava perchè non ero andato a prendere Silvietta a scuola. Io ero dietro a una macchina a piangere. La Piccolo mi sembrava una persona molto docile, finchè non girammo quella scena, in cui era particolarmente credibile. Mi spaventò e mi diede un reale scapellotto dietro alla testa. Era tutto meno finto di quel che sembrava, e per me che ero un bambino di undici anni era tutto strano.

Com’erano Pozzetto e gli altri sul set?

Con Pozzetto girai solo due scene: quelle del giornalaio, che essendo in esterna furono girate nello stesso momento, e quella finale quando la macchina si ferma e Marco torna bambino. Me lo presentarono, ma ricordo soprattutto questo omone seduto sulla sedia protetto da uno stuolo di gente, anche perchè lui a quell’epoca era un vero divo. Insieme interagimmo veramente poco. Passai molto più tempo, giornate intere insieme ad Haber invece: me lo ricordo esattamente come lo si vede nel film, ma con molta più dolcezza. Molto più umano insomma.

Ti venivano dati consigli?

Sempre, continuamente da parte di tutti, soprattutto Franco Amurri. Non l’ho mai sentito come il regista del film: era molto paterno. Con una voce molto bassa, aveva un atteggiamento sempre calmo e divertente. Aveva creato un bellissimo clima: si rideva molto su quel set. Persino nella scena della torta, l’unica un po’ più drammatica, dove c’era molto imbarazzo, mi ricordo in realtà grasse risate, legate magari a qualcosa che era accaduto poco prima. Haber e la Piccolo poi si conoscevano molto bene. Alla fine del film Franco mi regalò anche un bellissimo orologio. Fu generosissimo: le economie degli anni ‘80 non erano certo quelle di oggi.

Pozzetto fu un maestro della comicità in quel film, riprendendo i movimenti e gli atteggiamenti di un bambino di otto anni. Fu solo lui a somigliare a te o ti chiesero do somigliargli il più possibile?

No era tutto molto naturale: alcuni dicevano che fossimo proprio uguali. Io guardavo Pozzetto e non mi sentivo proprio così uguale, sebbene fossi sicuramente un po’ più rotondetto di come sono poi cresciuto. Qualcuno però aveva colto qualche particolare somiglianza tra di noi.

Dove giraste il film?

La casa era finta: le scene della casa erano tutte girate in un teatro a Cinecittà. Le esterne, invece, erano tutte di ambienti reali: nella maggior parte dei casi furono girate all’Eur.

Nel film ti appassionavi alle figurine. Quali collezionavi tu a metà anni ’80?

Non facevo raccolte di figurine. Quando giravo quelle scene mi chiedevo perchè non ne facessi nella vita reale, ma facevo già sport a livello agonistico, mi allenavo tutto il giorno e non avevo nemmeno il tempo per fare raccolte di figurine.

Che sensazioni ti dava un tempo questo film e quali ti dà ora con più maturità?

Fino ai 25 anni quasi mi disturbava essere continuamente associato a quel film per il quale tutti mi riconoscevano. Oggi ne parliamo ancora a 30 anni di distanza, immaginati dieci anni dopo. Avendo deciso di non recitare più e rimanere lontano da quei riflettori non capivo l’importanza e la bellezza di quell’esperienza. Poi ho capito di aver fatto parte di un film che è un’icona degli anni ‘80, e l’ho vissuta in modo più divertente. Ora che ne sono più distaccato, raccontare quell’esperienza è stupendo.

Tu hai un figlio di 5 anni. Ma se ti chiedesse di comprarlo il Lego come reagiresti?

Non ha fatto in tempo a chiedermelo, gliel’ho comprato subito io. Quindi mio figlio è pieno di Lego, con cui gioco io ovviamente! Lui gioca coi videogames e io faccio le costruzioni con il Lego.

Non ti hanno mai regalato il Lego sopportare quel film?

Ci ho sperato fino all’ultimo che qualcuno me lo regalasse, invece provai la stessa delusione che prova Marco nel film quando non gli arriva il Lego grande. (Ride). Realmente poi costava un sacco di soldi…

Eri piccolo, dicevi di volere diventare grande e ti vennero i peli e diventasti Pozzetto. Ma cosa volevi diventare, davvero, da grande?

Esattamente quello che faccio adesso. Tutti davano per scontato che volessi fare l’attore da grande e io rispondevo di no. Infatti, come dicevo, dopo un paio d’anni smisi di recitare volutamente e mi dedicai a studiare musica un po’ più seriamente.

Come avvenne il passaggio dal cinema alla musica?

Cominciai a studiare, a dedicarmi completamente alla musica e, come ogni passione che chiunque abbia, se si sviluppa ecco che si realizza.

Quale ruolo hai esattamente?

Oggi sono producer, che è un termine che racchiude varie competenze: ovvero nel mio caso sono produttore, songwriter nel caso della musica pop e compositore nel caso di colonne sonore e di cose un pò più complesse a livello strumentale.

Quali sono i prossimi progetti?

Ora sono a X Factor, con Mara, come producer. Sto iniziando un percorso di docenza molto bello e interessante con il Tour Music Festival, e poi sto collaborando con una produttrice cinematografica per un film su Netflix. Non tanto per la colonna sonora quanto per la consulenza musicale.

Componi tutto al pc?

Nella maggior parte dei casi si lavora col computer: arrivando dalla dance e dalla musica elettronica sono già abituato a quel mondo sonoro. Per fortuna però, ogni tanto, si registra ancora in studio.

L’autotunes non è forse deviante dando a tutti la stessa voce?

Sicuramente, ma siamo di fronte a un passaggio epocale di suono a cui dobbiamo necessariamente assistere, perchè il computer da cinque anni a questa parte ha preso il sopravvento anche nella musica a livello totale.

Con chi ti piacerebbe lavorare e non hai potuto ancora collaborare?

Mi piace portare avanti sempre di più la parte sonora quindi dal punto di vista emotivo mi solletica soprattutto l’idea di collaborare con altri produttori sogno di lavorare con Diplo, che in questi anni ha spostato un pò il concetto sonoro.

C’è qualcosa del passato che non è ancora stato riproposto e che vorresti rivedere oggi sotto una luce diversa?

Credo sia stato ripreso davvero tanto. Ultimo, per esempio, ha preso tutti gli ultimi 30/40 anni di scrittura melodica facendo un cocktail veramente ottimo perchè piace a ragazzini e gente molto più adulta. E’ un buon esempio per capire che una certa tradizione italiana può essere ripresa e sviluppata tranquillamente. Come lui Calcutta. Questo genere indie sta funzionando tantissimo, e molto prima fu anticipato già dall’ultimo Battisti che in pochi conoscono e che dal punto di vista melodico e testuale aprì delle strade incredibili. Sembrano canzoni scritte oggi: come quelle di Rino Gaetano, che già riuscì a ritagliarsi un po’ più di spazio con quel genere. Erano considerati dei folli, ma era evidentemente troppo presto per il pubblico. In ogni caso, qualunque genere musicale si faccia è buono se si crede in quello che si fa senza metterci troppi orpelli.

Il testo oggi è ancora importante?

Ora il testo è tornato ad incidere molto più della melodia, come era negli anni della canzone d’autore. Direi che il 70% della produzione di una canzone si basa solo sul testo.

Massimiliano Beneggi