E’ uscito il 10 giugno nelle sale cinematografiche il nuovo film di Gabriele Salvatores, Comedians. Tra i tanti i protagonisti (da Ale e Franz a Christian De Sica) di questa pellicola, anche Marco Bonadei.
Genovese, diplomatosi allo Stabile di Torino, da oltre dieci anni è costantemente nella compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano.
Dopo aver recitato in spettacoli di Bennet, Shakespeare, Olmi, Welles, ha preso parte ad alcune fiction di successo (Un passo dal cielo, Baciato dal sole) e nel 2019 ha debuttato alla regia nello spettacolo di teatro Trieb_L’indagine, unendo prosa e danza. Oggi, con un’Italia finalmente pronta a ripartire anche con lo spettacolo, Marco Bonadei è ospite della nostra intervista settimanale.

Marco, cosa ha rappresentato la chiamata di Gabriele Salvatores per questo film?
E stata una grande sorpresa carica di stupore e di emozione, anche di incredulità. La chiamata è arrivata direttamente da Gabriele, dopo che mi aveva visto in alcuni spettacoli al Teatro dell’Elfo. Che dire, è semplicemente un sogno lavorare con un artista di quel livello.
Cosa ti ha colpito del suo modo di stare dietro alla macchina da presa?
Ha sempre perfettamente chiaro nella testa ogni cosa stia facendo; non solo, ha un’apertura enorme nei confronti dell’artista. Recitare diretto da lui mi permette di essere libero e direi che non potrebbe esistere una scuola migliore per crescere che sentirsi monitorati da una grande produzione come la sua.
Di cosa parla Comedians?
E’ la storia di una classe da dopo lavoro per comici, a cui prende parte un gruppo di scappati di casa, che fanno lavori piuttosto umili. Nessuno è pienamente soddisfatto della sua vita. Il mio personaggio, Samuele Verona, gestisce un night del padre ed è in cerca di un riscatto sociale, di un’autoaffermazione in un’Italia che ha bisogno assoluto di conferme concrete. Si racconta un’Italia maschilista, e Samuele è il classico personaggio aggressivo, ma che ce la mette tutta, pronto ad affrontare le scelte e le vicende dei vari personaggi pur di diventare qualcuno. E’ un film che rappresenta pienamente l’individualismo antisociale che ci appartiene e ci fa credere sia necessario prevaricare sugli altri con l’arroganza.
Individualismo che forse è cresciuto nell’ultimo anno e mezzo. Siamo sempre tutti coinvolti da una vita in movimento e piena di programmi. Ora finalmente potremo vedere tutto ciò a cui si è lavorato, per una volta senza fretta.
E’ vero. Io ero in tournée con Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, quando all’improvviso ci dovemmo fermare, come tutti. Con il Teatro dell’Elfo naturalmente focalizziamo vari spettacoli programmandoli anche per il futuro: in qualche modo quindi siamo rimasti sempre in attività, pur senza fare incontri col pubblico. E, forse, abbiamo potuto riprendere al meglio ora dopo ampie valutazioni.

Cos’hai scoperto di te stesso da questa pandemia?
Più che avere scoperto qualcosa, ho avuto la conferma di una persona che non soffre la solitudine e la poca socialità. Ho imparato a ritagliarmi una mia individualità: amo la scultura e la pittura, la cucina, la lettura. Tutto questo è anche nutrimento del mio mestiere, e in qualche modo ho approfittato per vivere di più me stesso. Naturalmente posso dire questo perché ho avuto la fortuna che la pandemia non ha toccato direttamente me e i miei familiari.
In un anno e mezzo il linguaggio è cambiato: tutti sanno cosa sia Tik Tok, si parla solo con un linguaggio vicino a quello dei social e sembra impossibile fare chiamate senza vedersi in video. Fatto salvo che non siamo tornati migliori, dove ci porterà tutto questo? E’ possibile che l’autoaffermazione, di cui parla anche il nuovo film, ora sia diventata una necessità per tutti?
Io personalmente sono in litigio costante con i social. Non ho quella propulsione a usarli. Anzi, ne ho anche un po’ paura. Prima di postare qualcosa ci penso sempre due volte. Per lavoro lo devo fare, mi sto impegnando. I social servono per certi lavori, ma durante la pandemia in effetti chiunque lo ha usato come uno sfogo, ma bisognerebbe farlo dandoci un’occhiata, senza starci tutto il giorno, quasi istericamente. Si sono viste anche cose che era meglio non vedere. Non so se si sia incrementato il bisogno di autoaffermazione o se sia diminuito ora che non siamo più obbligati a stare in una stanza. Di sicuro adesso vedo però tanta voglia di vivere: i social erano il passatempo, forse, solo per superare quella noia.
Voglia di vivere eventi dal vivo, già. Dopo anni in cui si è parlato della crisi del teatro, questa è l’occasione giusta per ripartire tutti dallo stesso livello e fare appassionare al palcoscenico anche chi prima non lo considerava?
Non partiamo tutti dallo stesso livello. La crisi del teatro è sempre discussa dal punto di vista errato: non è mai calato l’interesse per il palcoscenico. Molti non lo conoscono, non hanno educazione al teatro, di base lo ignorano.
Come lo definiresti tu il teatro?
È un rito sociale dove ci si incontra e ci si interroga su alcune questioni; al contrario della tv che, se si vuole, può essere anche solo voce di sottofondo.
Quindi perché il teatro si dice sia costantemente in crisi?
La crisi è politica, perché è in crisi il sistema. Sono state fatte riforme assurde che mirano alla distruzione del teatro: è una vergogna esagerata quella che viviamo in Italia. C’è una produttività immensa e logorante, che porta a una vita sempre più breve degli spettacoli: testi di produzione allucinanti, troppi in cartellone. In pratica ormai chi ha più fortuna va avanti, gli altri restano…in quarantena.
Massimiliano Beneggi