Musica e letteratura si fondono insieme. A scrivere questa volta è Pietruccio Montalbetti, da sempre chitarrista dei Dik Dik, che si ripropone come autore di romanzi.
“Il mistero della bicicletta abbandonata“, edito da BookRoad, descrive un’epoca in cui la coscienza umana sembra essere il dono di pochi: uno specchio su quello che è rimasto delle violenze del nazifascismo e del valoroso coraggio dei partigiani italiani.
Siamo a Milano, nel 1948. Luca, ex militare ed ex partigiano, dopo la fine della guerra è diventato un carabiniere. Ogni mattina compie lo stesso tragitto passando davanti alla basilica di Sant’Eustorgio, fino a quando nota una bicicletta legata sempre nello stesso punto. Quando si accorge che la bicicletta è girata alcune volte verso destra, altre volte verso sinistra e che l’uomo misterioso che la lega si affretta a dileguarsi non appena lo vede in divisa, Luca inizia a sospettare che quella non sia una semplice bicicletta ma un messaggio in codice. Ma da parte di chi?
Abbiamo voluto intervistare quindi l’autore stesso del libro, che ci ha raccontato anche l’antefatto, oltre alla genesi di questo romanzo pieno di colpi di scena e di storia autenticamente e drammaticamente italiana, scritti con le rare cultura e sensibilità di un poeta che si lascia affascinare da diversi mondi (oggi particolarmente appassionato e studioso anche di astrofisica).

Pietruccio, la storia è ambientata a Milano.
Non poteva che essere così: sono nato e cresciuto a Milano. Anche se va ammesso che i meridionali hanno più inventiva di noi: a pensarci, forse, era meglio se fossi nato meridionale, avrei avuto ancora più fantasia!
Cosa rappresenta per te la scrittura?
È una delle mie tante passioni a cui non riesco a rinunciare. Io scrivo sempre prima col cuore, di getto, senza mai fermarmi per giornate intere. Quindi ricomincio da capo, scrivendo con la testa e facendo le dovute correzioni. Amo scrivere perché mi piace scoprire il mondo, e la scrittura accultura sempre. Per questo libro sono andato a studiarmi alcuni testi storici che raccontavano la crudeltà del fascismo e del nazismo che io, nato nel ’41 e sfollato a Soncino, avevo solo appena vissuto. Ma, comunque, quanto bastava per ispirarmi questa storia, inventata ma ambientata in un contesto assolutamente vero, purtroppo.
Qual è la storia?
L’antefatto è questo: Luca è un giovane fascista che, come tanti, aderiscono a ogni iniziativa del regime incondizionatamente, pur non essendo d’accordo. Nel ’38 ci sono le leggi razziali: entra in classe il preside e chiede di far alzare la mano a tutti gli ebrei, dividendoli dagli altri. Luca si lamenta di questa situazione per lui inaccettabile; i suoi genitori, però, danno ragione al preside. Scoppia la guerra nel ’41 e Luca viene arruolato come militare con il compito di trasportare i bambini ebrei da Ferrara al Binario 21 su un carrobestiame. Luca, sensibile, riesce a fare fermare il treno almeno per far fare loro i bisogni. Due bambini scappano e vengono uccisi. Da quel momento cambiano la storia e l’atteggiamento di Luca sarà per sempre condizionata da quell’episodio che lo renderà particolarmente attento alla visione del mondo dei più piccoli. Saranno proprio dei bambini a fornire la chiave di lettura dei numeri che leggerà su un foglietto lasciato sulla bici misteriosa che troverà più avanti.
Una trama molto forte. Come mai hai avvertito l’esigenza di raccontare la seconda guerra mondiale in un periodo epico come quello che stiamo vivendo?
Volevo risvegliare le coscienze: avverto un certo sovranismo, che ritengo molto pericoloso. Il razzismo e il sovranismo sono basati solo sulla paura: oggi avviene la stessa cosa. Non è vero che gli italiani sono tutti brava gente: a volte ci sentiamo autorizzati a fare cose terribili solo perché abbiamo una divisa addosso. Anche i tedeschi pianificarono persino lo sterminio di innocenti sentendosi invincibili con una divisa.
Qual è la soluzione al razzismo?
Rita Levi Montalcini diceva che non esistono le razze ma i razzisti, che bisogna combattere con l’intelligenza. E io sposo in pieno questa teoria.
Ti sei accorto che questo libro potrebbe essere la sceneggiatura di uno spettacolo teatrale?
Si potrebbe portare a teatro in effetti, chissà se qualcuno prima o poi se ne accorgerà e lo proporrà…
Quali sono i progetti futuri anche con i Dik Dik?
Due mesi fa è uscito Una vita d’avventura, un vinile dove ci sono anche delle canzoni nuove. Vorrei fare un disco country, interpretando canzoni con la voce bassa, raccontando la storia della mia vita da uomo sposato con una psicoanalista. I progetti sono tanti, anche perché di sicuro non mi manca mai la curiosità: questo, come dice Einstein, mi permetterà sempre di essere giovane.
La curiosità è la base della vitalità?
Assolutamente. Non ho mai fatto uso di droghe per avere questo spirito, ho sempre cercato solo di vivere.
Tu hai citato Einstein. Chiudendo con una citazione di Winston Churchill, invece, che sosteneva nel cambiamento l’unica possibilità per cercare un miglioramento, proviamo a pensare all’ultimo Festival di Sanremo. Tre mesi fa in tanti hanno storto il naso sulla vittoria dei Maneskin, dopo l’Eurofestival gli stessi detrattori sono saliti sul carro del vincitore. Il cambiamento di pensiero, in questo caso, giustifica un miglioramento o l’unica vera rivoluzione l’hanno fatta i Maneskin stessi con la loro musica?
Non saprei dirti perché in molti hanno cambiato idea, so che i Maneskin non sono così rivoluzionari, ma sono comunque coraggiosi nell’essere fuori dalle righe. In fondo hanno riproposto quello che facevano già David Bowie e gli Zeppelin, Hanno fatto del rock, decisamente diverso da quello di una volta. Mettiamola così, non ha vinto il rap e questa è già una bella notizia!
Massimiliano Beneggi