Sergio Basile: Così ho immaginato L’Aminta di Tasso in un manicomio-INTERVISTA

Da martedì 9 a domenica 14 novembre arriva al Teatro Trastevere di Roma lo spettacolo L’Aminta (prodotto da Ars 29 e Fondamenta) diretto da Sergio Basile con Massimiliano Auci, Giovanna Cappuccio, Andrei Costantino Cuciuc, Riccardo Parravicini, Arianna Serrao, Giorgia Serrao.

La storia è nota: Aminta è innamorato di Silvia, che però non lo degna di uno sguardo nemmeno quando lo spasimante la salva da una violenza di un satiro. Solo il tentato suicidio di Aminta farà capire a Silvia di amare l’uomo più di quanto non immagini.

Uno spettacolo intenso e coinvolgente, un’Aminta immaginata e rivista da Tasso all’interno dell’universo manicomiale in cui è precipitato, ovvero il manicomio di Sant’Anna in cui il poeta è stato rinchiuso per sette anni per aver gridato frasi ingiuriose contro il duca di Ferrara. Insomma un’opera che continua a essere contemporanea grazie all’intuito geniale del regista Sergio Basile, ospite della nostra intervista settimanale.

Sergio, l’Aminta è un dramma pastorale scritto da Tasso nel 1573. Come cambia in questa versione?

Si tratta di un’Aminta ambientata in un manicomio. Volevo fare un dramma diverso e ho pensato proprio allo stesso Tasso, che fu internato in manicomio per sette anni. Mi piaceva quindi l’idea di una storia reimmaginata lì dentro dal poeta per mettere in scena l’opera con i suoi compagni di sventura. A ognuno Tasso attribuisce, qui, il ruolo più vicino al personaggio del dramma secondo la patologia che vive. Aminta, per esempio, ha istinti suicidi; Silvia ha una visione masturbatoria della sessualità; Dafne (l’amica di Silvia) ha un’invidiomania. Tutti sono l’esasperazione di quello che sono i personaggi veri della vita.

Tematiche coinvolgenti, drammatiche e anche piuttosto coraggiose.

Direi proprio di sì. L’Aminta un tempo veniva studiata all’Accademia Silvio D’Amico; in seguito ne fece qualche edizione il Maestro Ronconi, sempre attenendosi al testo classico. Io ho voluto modularla in un ambiente claustofobico di violenza, pur mantenendo i versi endecasillabi e settenari che contraddistinguono l’opera di Tasso. Il personaggio del Satiro, per esempio, l’ho immaginato come un infermiere attratto da una delle pazienti. Ho cercato insomma di lavorare sui correlativi, per cui ne emerge uno spettacolo più duro e aspro, sicuramente poco consolatorio. L’happy end scelto dal poeta, qui non esiste…

La follia è, vista dall’esterno, un canale divertente attraverso cui comprendere meglio la realtà. Ci sarà un personaggio che, più di un altro, ci svelerà qualcosa di particolarmente vero e contemporaneo?

Non uno in particolare, direi tutti. I personaggi, proprio perché pazzi, sapranno impossessarsi delle parole di Tasso e diventare molto vicini a noi con i loro problemi, i loro drammi e le disperazioni. La lente deformante delle loro patologie li farà essere tutti più che mai attuali.

Come hai scelto gli attori di questo spettacolo?

Conoscevo Massimiliano Auci, un mio allievo che aveva fatto un’edizione di studio dell’Aminta. Partendo da lui ho scelto Giorgia e Arianna Ferrao (Dafne e Silvia) e tutti gli altri. Si tratta di una formazione giovane ma molto preparata, che anche in questi giorni non smette di provare e trovare nuovi spunti. E’ assolutamente stimolante lavorare con questi ragazzi: sono molto contento di loro e non vedo l’ora del debutto del 9 novembre.

Il testo oltretutto, come dicevi, è in versi con una struttura ben precisa. Altra difficoltà in più per gli attori.

Sì, hanno dovuto affrontare endecasillabi e settenari in un testo completamente riadattato. E’ la dimostrazione che, attraverso la tecnica, si può veicolare il messaggio. Gassman diceva che un attore di teatro deve aspirare ad avere il massimo dell’abbandono, lasciandosi coinvolgere dalla storia, ma anche il massimo del controllo, conoscendo quindi la struttura tecnica della poesia. Ecco, qui abbiamo un bellissimo incontro di abbandono e controllo a cui i ragazzi sono stati attentissimi.

Nella tua Aminta Tasso si immagina Tirsi, l’amante deluso che trova rifugio solo nella poesia. Tu, che sei anche un insegnante presso la scuola Fondamenta, puoi dircelo più di chiunque altro: nel 2021 la poesia può ancora avere questo ruolo protettivo per la società?

La poesia non è un rifugio ma una visione del mondo. La realtà che viviamo si può interpretare proprio attraverso la poesia: se tutti lo facessero, o perlomeno provassero a farlo, sarebbe meglio per chiunque. La differenza tra prosa e poesia è molto semplice: la poesia ha una possibilità di andare sui sentimenti e sulle associazioni di idee. E’ un modo di arricchire la vita e ci apre le strade per stare al mondo: per questo tutti dovrebbero leggere la poesia e prediligerla a ogni altra cosa.

Massimiliano Beneggi

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