Il delitto Karamazov: suspance ed empatia nell’opera di Dostoevskij -RECENSIONE

Fino al 12 febbraio, al Teatro Out Off di Milano, è in scena Il delitto Karamazov (coproduzione Teatro Out Off e CTB – Centro Teatrale Bresciano) di Fëdor Dostoevskij. Ecco la nostra recensione.

IL CAST

Mario Sala, Fausto Malcovati, Antonio Gargiulo, Matteo Vitanza, Giuseppe Gambazza. Regia di Lorenzo Loris.

LA TRAMA

Al processo per l’omicidio di Fëdor Karamazov, sul finire dell’800, l’imputato è il figlio Dmitrij. Tuttavia, si comprende subito come anche gli interrogati (il cameriere Smerdjakov e i fratelli di Dmitrij, ossia Ivan e Alëša) stiano nascondendo qualche importante novità. Per esempio, Smerdjakov è anch’egli figlio (illegittimo) di Fëdor. Per questo motivo si è sempre sentito umiliato e messo da parte, in una società costantemente pronta a ricordargli con disprezzo di essere nato e cresciuto senza un padre. Coi fratellastri non ha un buon rapporto: si sono sempre sentiti in diritto di trattarlo da cameriere, ma il suo vero “padrone” era solo Fëdor. Smerdjakov sembra godere di una qualche stima solo nei confronti di Ivan, l’intellettuale che appare sfrontato proprio in virtù della sua cultura. Certo Fëdor non era un genitore molto presente, né faceva nulla per farsi amare dai suoi figli: il modo con cui trattava le donne e il distacco che poneva tra se stesso e i suoi eredi, non facilitava il rapporto con nessuno di loro. In particolare, Ivan non ha mai negato di volerlo vedere morto. Proprio in quell’astio verso il padre e nel suo attaccamento all’eredità, emerge la fragilità del ragazzo, a cui ancora appare Fëdor in una sorta di incubi e allucinazioni che gli renderanno impossibile la vita. Così Ivan, elargendo il suo motto “tutto è permesso”, in virtù del fatto che nel mondo accadono persino violenze sui bambini, influenza la mente e le azioni del vero assassino di suo padre. Un omicida che non risponde al nome di Dmitrij, ma ben conosciuto dai tre fratelli. Ivan si sente altresì responsabile di essere in qualche modo il mandante di quel parricidio e prova ad assumersi le colpe, di fronte a un tribunale che, però, sembra avere già deciso chi condannare ingiustamente.

LA MORALE

Che le parole possano infierire tanto quanto le azioni è cosa certa, che emerge anche da Il delitto Karamazov, dove le intenzioni di uno sono talmente forti da influenzare le azioni di un altro. Tutto con la presunzione che ogni cosa debba funzionare come vorremmo noi, altrimenti rischiamo persino di perdere ogni empatia e rimanere impassibili di fronte alla morte di un padre. “Chi siamo noi per decidere chi possa vivere?”, ripete Alëša. In effetti non siamo giudici del mondo, ma solo delle nostre stesse azioni, che però possono avvenire appunto anche mediante opera di qualcun altro. Poi c’è il ruolo del senso di colpa, che può diventare tanto opprimente da far sì che si assuma colpe chi invece è innocente. Forse perché empatizza troppo o probabilmente perché è matto, come la società vorrebbe far credere ingiustamente. A sua volta, il pubblico empatizzerà con qualcuno in particolare: sarà questo a far decidere chi sia da condannare, sebbene a volte l’apparenza inganni…

IL COMMENTO

Il delitto Karamazov è il più celebre degli omicidi consegnati alla letteratura: questa volta arriva in teatro con una chiave di lettura fedele al romanzo, concentrata però sul finale, quando il processo vede l’imputazione di un figlio e i crescenti sospetti su un altro. Quattro i protagonisti in scena (più una voce fuori campo nella parte del giudice), illuminati da fari di luce che riescono a porre i giusti distacchi tra la realtà presente e i flashback. Una regia quasi cinematografica, con una scenografia che raccoglie tutta l’essenzialità necessaria a narrare la vicenda: così questo spettacolo appassiona per un’ora e venti, in cui si prova a intuire chi sia davvero stato l’assassino, partendo dal processo. Ossia, proprio con gli stessi elementi che ha il giudice: questi si rivela errante ma, se non vedessimo la confessione dell’omicida sul finale, probabilmente lo saremmo tutti. Il delitto Karamazov affronta in un’ora e venti tanti argomenti: il parricidio, l’inganno, la solitudine, il disagio. Un’opera che vale la pena vedere fino al 12 febbraio.

IL TOP

I protagonisti principali Mario Sala, nel ruolo di Smerdjakov, e Antonio Gargiulo (Ivan) sono perfetti: intensi, impegnati, immedesimati al punto da essere probabilmente stremato al termine dello spettacolo. La sala (piena) applaude con convinzione una messa in scena piena di suspance, che si rivela essere la sensazione principale, anche una volta scoperto l’assassino. A quel punto rimane infatti da capire come si muoverà la giustizia: abbiamo talmente poca fiducia nei tribunali e nella fragilità umana, che ormai si assiste con suspance anche a ciò che dovrebbe avere un finale scontato.

LA SORPRESA

Finale sorprendente, in una storia che vede i quattro personaggi agire sempre regalando qualcosa di inaspettato. Gli attori parlano anche solo con gli sguardi: fate attenzione ai loro gesti e alle smorfie mentre stanno dialogando altri, perché anche in quel momento emergerà la personalità di tutti e quattro. I dettagli faranno la differenza, compresa la scenografia che comparirà su tre schermi, lasciandosi accompagnare magistralmente dalla colonna sonora realizzata dagli allievi della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado del corso di composizione (IRMus).

Massimiliano Beneggi