Alla fine, come da pronostici, ha vinto la Svezia. Loreen, con il brano Tattoo, trionfa per la seconda volta all’Eurovision Song Contest, portando a 7 le medaglie d’oro del Paese scandinavo (record insieme all’Irlanda, che non vince dal 1996). Una gara senza rivali, specie con le giurie di qualità che hanno incoronato la cantante svedese di origine marocchina. L’Italia si classifica quarta con Marco Mengoni. Un buon risultato, specie se si pensa che non eravamo favoriti dai bookmakers. I risultati, quest’anno, hanno corrisposto perfettamente alle attese degli scommettitori: seconda la Finlandia, acclamata dalla platea e dal televoto, terza Israele. Come da tradizione, all’ultimo posto la Germania. Con tutti i compositori che ci hanno regalato nei secoli passati, i tedeschi non riescono a mettere insieme due note senza creare qualcosa di maranza. Beethoven, Wagner e via dicendo si rivolteranno nella tomba a ogni Eurovision.

La kermesse è sembrata, comunque, piuttosto noiosa per tutte le tre serate. Ridotto notevolmente il trash che contraddistingueva la manifestazione fino a un paio di anni fa, rimane la gara musicale. Con troppi, decisamente troppi, brani in concorso. Rispetto al Festival di Sanremo, qui c’è anche il gap di una conduzione da tradurre. Gabriele Corsi e Mara Maionchi non possono fare molto più che commenti più o meno banali e a tratti vagamente disinteressati. D’altronde fare la cronaca di quel che stiamo già vedendo coi nostri occhi, equivale solo a raccontare ciò che non possiamo capire, per la lingua straniera. Ci si può limitare solo a interventi piatti quanto una telecronaca di automobilismo, che trova qualche sprazzo in pochi momenti della gara.
I presentatori ufficiali tentano di essere comici a ogni costo, rimanendo perlopiù delle macchiette inutili in una serata così lunga. Lo stesso scivolone vide protagonisti l’anno scorso i nostri Cattelan, Pausini e Mika. Così, se al circo togli gli acrobati e i clown ma lasci i prestigiatori e i presentatori, ecco che il carrozzone resta un bello spettacolo, più elegante, ma estremamente noioso. A sto punto, sarebbe meglio dividere la gara in diverse settimane, così ci si affezionerebbe anche di più alle canzoni che potrebbero finalmente restare nella nostra memoria.
Rimane, infatti, sempre da chiedersi quale canzone dell’Eurovision abbia veramente la capacità di farsi ricordare nel tempo. È un problema che talvolta abbiamo anche con il nostro Sanremo, dove però almeno i brani primo in classifica ultimamente riescono nell’impresa. Dall’Eurovision Song Contest non emerge mai un pezzo che diventi una bomba mondiale. Non è successo nemmeno coi Maneskin, contrariamente rispetto a quello che ci è stato raccontato: ne giova la carriera del vincitore, che da quel momento è notissimo anche all’estero ed è protagonista di molte ospitate, quello sì. Da lì a definire il brano vincitore il pezzo che tutta Europa canta, però, passa davvero un mare.
È molto probabile succederà anche questa volta con Tattoo, che tuttavia potremmo ricordare inconsapevolmente. Non occorre un’attenzione eccessiva per accorgersi che la progressione iniziale del brano somiglia tantissimo a quella di Fatti avanti amore di Nek (secondo a Sanremo nel 2015 con quella canzone). A sua volta, il pezzo di Nek somigliava già a Bom digi bom con cui Ice Mc fece ballare il mondo nel 1994. Non solo, come non bastasse tutto questo, le prime note cantate da Loreen sono esattamente le stesse di The winner takes it all degli Abba. Ha mantenuto uguale persino accompagnamento e ritmo. Insomma, la canzone che vince all’Eurovision l’abbiamo già sentita e sapevamo già cantarla insieme a Loreen durante il primo ascolto. Grande introduzione prima di un bel ritornello, ma di originale non c’è proprio nulla. Se non è plagio, è perlomeno un ottimo collage di tante citazioni.
Massimiliano Beneggi