Quelli che il calcio compie in queste settimane 30 anni. Come ogni domenica, rievochiamo la trasmissione cercando di scoprirne le trame filosofiche che si celavano dietro ai suoi protagonisti.

Che il calcio, in fondo, sia solo un gioco (almeno per i tifosi) è una cosa che ci viene insegnata sin da quando è stato inventato. Probabilmente la sua popolarità, che ne fa lo sport più frequentato dai bambini, ci impedisce di ricordarci ogni tanto quanto sia vero quel valore. Tutto si fa serio in breve tempo, fino a consentire addirittura (nella migliore delle ipotesi) di cambiare gli umori domenicali dei tifosi, in basi ai risultati della loro squadra del cuore. Insomma, dovrebbe essere la regola principale, eppure ci dimentichiamo sempre che in fondo è solo un gioco. Proprio questo era il titolo di un breve libro, venduto come allegato in edicola negli anni ‘90. Autore: Fabio Fazio.

Il conduttore, proveniente da Via Teulada 66 e da altre trasmissioni come Mi Manda Lubrano, Fantastico, Diritto di replica in cui si proponeva come imitatore con la vena da presentatore, nel 1993 divenne il primo padrone di casa di Quelli che il calcio. Fu la sua consacrazione definitiva.

Fabio Fazio si rivelò subito un eccezionale giocoliere: pacato, educato, capace di fare da tredunion tra un segmento e l’altro, ma anche qualcosa di più. Era lui a incalzare gli ospiti, provocandoli a fare quanto di più bizzarro si potesse richiedere. Dotato di un microfono gelato con tanto di colori della sua squadra del cuore (la Sampdoria), Fazio non interloquiva con ospiti ligi e silenziosi. Questi dovevano necessariamente trovarsi in situazioni particolari che li potessero rappresentare anche come maldestri. Chi era seduto in studio a guardare la partita, veniva chiamato in causa con le domande più disparate. Tutto questo dimostrava che dietro a quella pacatezza si nascondeva la folle genialità di un presentatore che, con la faccia da bravo ragazzo, poteva essere il protagonista più credibile per la trasmissione. Il giocoliere perfetto, per l’appunto. La sua carriera successiva, fondata su vent’anni di interviste anche a politici e sociologi in Che tempo che fa, ma anche su amarcord mai banali e indirizzate piuttosto a cercare un significato filosofico persino nelle risposte apparentemente più assurde, avrebbe dimostrato poi che Fabio Fazio sa davvero giocare seriamente. Proprio come Aristotele. Il filosofo greco, infatti, descriveva il gioco come l’unica attività possibile in alternativa al lavoro, che la natura imperfetta dell’uomo non potrebbe mai portare avanti costantemente. Abbiamo bisogno di svago e il gioco ci procura quella felicità che non nasce per necessità (come accade per il lavoro), ma piuttosto per un’incondizionata propensione all’autosufficienza e alla libertà. Occorrono regole, secondo cui incastrare tutti i pezzi: proprio come nella società. Proprio come accadeva in Quelli che il calcio.

In quel grande circo domenicale non vi era mai il caos regnante in tante altre trasmissioni sportive, che magari hanno cercato di imitare Quelli che il calcio. Ogni follia degli ospiti era disciplinata da quella del conduttore, capace di dare sempre una tematica a ogni puntata per creare dei segmenti non troppo lunghi ma sufficientemente divertenti. Non esiste genio senza una dose di follia, diceva proprio Aristotele.

Detto così potrebbe apparire la cosa più facile, ma condurre Quelli che il calcio in quegli anni era piuttosto complicato. Occorreva un’esperienza che consentisse di gestire un programma che andava in onda in contemporanea con tutte le partite di Serie A. Ossia, bisognava essere pronti a ogni possibile interruzione in caso di gol o di calci di rigore. Quindi, ogni volta, riprendere in mano l’argomento da dove lo si era lasciato.

Fabio Fazio sapeva farlo come un vero saltimbanco, senza lasciare trasparire (all’epoca lo faceva) alcuna opinione politica. Con il suo gilet d’ordinanza, il bravo conduttore si presentava sempre elegante e al tempo stesso più che mai vispo e sbarazzino: se l’estetica parla del nostro modo di essere (sempre per seguire la linea aristotelica), Fazio già così sapeva dare un’impronta ben precisa a quello che poi ci avrebbe attesi nella trasmissione.

Quelli che il calcio vedeva Fazio lanciare sondaggi improbabili (“la prossima settimana vogliamo in studio chi ha avuto il coraggio di fare le corna al professore nella foto di classe”), parlare con la stessa credibilità sia che lo facesse con Claudio (per lui “Claudione”) Baglioni sia che si rivolgesse al simpatico architetto giapponese Takheide Sano. Obiettivo: incalzare gli ospiti facendoli emergere nelle loro qualità migliori. Per farlo, occorreva rispettare certe regole, certi canoni diversi per ciascuna persona al fine di trovare il mezzo di persuasione valido a garantire il risultato dell’attenzione del pubblico. Questo faceva Fazio, questo faceva Aristotele con la Retorica. Curioso, simpatico, mai polemico ma piuttosto a caccia di originalità. Quasi un altro Fazio rispetto a oggi. Si invecchia tutti e non troppo bene se si pensa a fare tv solo per guadagnare soldi. D’altra parte, proprio Aristotele sosteneva che l’arricchimento fosse un bene da raggiungere, purché non andasse contro gli interessi della società. Ora che Fazio è passato su Nove, non si potrà più recriminare che venga pagato con i soldi degli italiani. Aristotele insomma sarà anche invecchiato ma ha mantenuto validi quei princìpi che almeno lo contraddistinguono per lealtà e sincerità. Anche se ormai sempre uguale a se stesso.

Massimiliano Beneggi