Giobbe Covatta: Impariamo dall’Africa semplicità e solidarietà. Basta poco, che ce vò?

Lunedì 25 maggio, in occasione della Giornata Mondiale dell’Africa, sul web è andato in onda un evento straordinario condotto da una madrina d’eccellenza, Fiorella Mannoia, con tanti artisti che hanno scherzato, raccontato aneddoti e un po’ di storia. Tra questi, naturalmente, non poteva mancare Giobbe Covatta, da tantissimi anni ormai testimonial di AMREF, che ha contribuito a portare in Italia facendoci conoscere il Continente Nero in una chiave fino a quel momento inedita.

Con tanta ironia e semplicità (“Basta poco che ce vò?”), l’attore tarantino ci racconta da decenni la realtà africana e l’organizzazione sanitaria che opera da 60 anni nel continente, con il 97% del personale che viene direttamente dall’Africa. Oltre 10000 operatori sono stati formati negli ultimi cinque anni per fornire servizi a oltre 20 milioni di persone; 4 milioni di donne assistite ogni anno da ostetriche formate; 1,5 milioni di persone hanno beneficiato di nuovi pozzi e infrastrutture idriche negli ultimi 20 anni. Numeri importanti, che dimostrano quanto si possa fare con un minimo impegno.

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E in questo periodo di quarantena che mette in difficoltà lo spettacolo, gli attori e i cantanti non si sono comunque tirati indietro rispetto a una forte sensibilizzazione di solidarietà. Quella andata in onda in streaming lunedì sera è una grande espressione di impegno artistico che vuole regalare speranze e sorrisi a tanta gente. Straordinario attore che ci fa sempre ridere (e riflettere) con tanti paradossi, Giobbe Covatta ci racconta in questa intervista quanto possiamo apprendere dall’Africa, più che mai in questo periodo che ci dimostra una volta di più (se mai ci fosse stato bisogno) che siamo tutti uguali. Dovremmo saperlo, ormai, senza dover necessariamente vivere i medesimi disagi, ma a volte la vita ci offre delle occasioni che vanno oltre tanti preconcetti, e scopriamo così l’unità nella diversità. Giobbe lo sa da sempre, e forse per questo sa sorridere e vivere la vita con una certa serenità.

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Giobbe, che futuro vedi per il teatro dopo questa quarantena?

Non penso che tutta questa situazione abbia fatto bene al teatro. Credo che prima del 2021 non potrà succedere nulla, quindi parliamo in totale di un anno di stop, in cui gli spettatori si allontanano giorno dopo giorno e i teatranti fanno sempre più fatica a campare. Io sono già uno dei pochi più o meno privilegiati, con un’immagine pubblica consolidata, ma siamo 26000 iscritti al collocamento: se si eliminano i 150/200 di cui si conoscono nomi e cognomi, ne rimangono altri 25850, che ora si interrogano su come potranno campare. Le nuove generazioni, dopo quest’anno non si ricorderanno nemmeno più cosa sia il teatro: ci studieranno a scuola come si studia con Garibaldi. La cosa drammatica è non avere la minima idea di quando si potrà tornare davvero: non esiste un calendario purtroppo, è tutto lasciato al mistero. Io e Soldini avremmo dovuto incontrarci a fine aprile a Milano per fare una serie di cose che ovviamente non si sono potute fare: ma quando si potranno realizzare? Non si sa…

C’è un saggio di Seneca sulla libertà di oziare che sembra scritto in questi giorni: si parla dell’isolamento per rispondere alla necessità di affermarci come individui, salvo poi scoprire che non possiamo vivere soli. Come è stata la tua quarantena?

A dispetto della mia professione, sono un orso polare. Se mi trovassi da solo sul K2 ne saprei trovare qualche vantaggio. Sono sempre stato abituato sin da piccolo ad andare in barca e l’ho fatto assiduamente fino all’età di trent’anni, dunque sono l’ultimo a vivere le situazioni di isolamento come un soffocamento. In questa quarantena poi ho potuto stare in casa per due mesi con mia moglie e mia figlia, e sono stato felicissimo. Il miglior tempo della vita è il tempo perso, diceva De Filippo: io ho sempre avuto la straordinaria dote di perdere tempo, penso faccia bene al fisico e al cervello.

Nella diretta dell’altro giorno avete più volte sottolineato come questa situazione metta tutto il mondo sulla stessa barca. Pensi che sia servita anche per comprendere meglio che non possiamo chiuderci e abbiamo bisogno di tutti?

Non so se davvero ci sia un miglioramento in questo senso, dipende da come si è fatti. Se si è abituati a ragionare tra sè e sè, e guardarsi da fuori, un’esperienza come questa è estremamente formativa: certo, per quelli che vivono in una piccola casa, senza magari già sopportarsi prima della quarantena, è stata una tragedia. Potrebbero essere anche incattiviti ora. Ma quello che potrebbe salvarci è una maggiore cultura, ne basterebbe poca in più…

In che senso?

Dovremmo studiare l’Africa: quelli che ce l’hanno raccontata lo hanno sempre fatto secondo un punto di vista politico e sociale che fa apparire solo quello che è più comodo. Bisogna parlare solo se si ha una conoscenza dell’argomento: tutti ricordano del debito dell’Africa, ma nessuno parla dei crediti dell’Africa, della sua storia. Nessuno si chiede mai perché il Congo sia un Paese disperato ancorché venga definito un’orgia geologica dove si trova di tutto. Il Congo ha tanti debiti perché è stato defraudato dal Belgio, basterebbe leggere la storia per saperlo, solo che nessuno passa il tempo a studiare la storia del Congo. Raccontavo nella diretta del 25 maggio la storia di Mau Mau, una tribù che si coalizzò per fermare l’ingresso degli inglesi nel Kenya. Ammazzarono 150 inglesi, e chi conosce un po’ di storia sa di questi, ma nessuno parla di quanti Mau Mau furono uccisi. Non si può però far finta di niente. Purtroppo abbiamo tutti i nostri interessi a raccontare che l’Africa sia nata con le colonizzazioni inglese e belga, ma esisteva già da molto prima e sapeva gestirsi. Bisognerebbe avere più cura e accortezza nel raccontarsi e raccontare ad altri la storia.

Talvolta dalle situazioni difficili emerge tutto ciò che non funziona: alla luce degli ultimi mesi, cosa può insegnare l’Africa alla nostra cultura?

Sicuramente ci può insegnare la solidarietà interna: questo è fuori discussione. Sono un popolo estremamente ospitale, e per questo quando arrivano da noi e scoprono che non sono accolti a braccia aperte vivono un trauma. Da loro sono sempre stato accolto con un entusiasmo che non ho mai visto in nessun altro Paese del mondo.

Basta poco che ce vò è una straordinaria espressione di semplicità che ci ha insegnato tanto. Anche Leopardi diceva che gli uomini grandi sono semplici, sebbene questo venga scambiato spesso per indizio di poco merito. Perché amiamo essere complicati, se sappiamo che la grandezza risiede nella semplicità?

Pensiamo sempre che più siamo complicati e più le cose che diciamo abbiano possibilità di essere credibili. La verità è che più siamo complicati e meno capiamo le cose, quindi ci sembra di risultare più credibili, perché il senso è avvolto da un mistero.

Qual è il prossimo progetto che ha in mente Giobbe per continuare a essere credibile nella semplicità che ci trasmette?

Fae il giro dell’Africa insieme a Giovanni Soldini partendo da Il Cairo passando per le Colonne d’Ercole, oppure fare un giro in macchina fino a Nabuto. Ma in questo momento dobbiamo aspettare e avere pazienza…(e se ce lo dice uno che si chiama Giobbe, possiamo essere sicuri che la pazienza ci porterà lontano, ndr).

Massimiliano Beneggi

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