Ci risiamo. La storia tra il calcio italiano e l’inno di Mameli non smette di essere complicata e questo forse spiega perché per tanti anni Fratelli d’Italia sia stato ignorato dal mondo del pallone. Terrore subconscio che qualcosa potesse andare storto? Chissà, vero è che le cose spesso non sono state facili.
Ci volle la politica patriottica di Carlo Azeglio Ciampi a convincere i calciatori azzurri a cantare l’inno nel pregara: fino agli Europei 2000 tutti muti e concentrati, mai smossi nemmeno da un senso di vergogna nel vedere gli avversari intonare a gran voce il proprio canto nazionale. E ovviamente polemiche a non finire, ma era ancora l’epoca dei social. Già, i social, quelli che permettono a chiunque di scrivere e diventare esperti di tutto.
Perché in effetti guardare una partita di calcio presuppone, per molti, l’impegno di improvvisarsi già commissari tecnici: seduto sul divano di casa sua o persino su sgabelli sbilenchi del bar, il tifoso medio è comunque sempre più comodo dell’allenatore che, in panchina, sta lavorando e vive la tensione della sfida insieme alla sua squadra. In caso di sconfitta, raramente vi sono sconti: chi perde è colpevole e merita un “processo” sportivo senza appello.
Dunque, l’inno di Mameli dicevamo. Se non c’è alcun rispetto per il lavoro di un allenatore che perda una partita dove, per ovvietà, non qualcuno dovrà pur essere sconfitto, perché aspettarsi quel rispetto per chi canta? Come si può chiedere un apprezzamento musicale a chi è intento a osservare il modulo di gioco dei calciatori in campo? Ecco che da qui ne nasce la storia amara tra l’inno e il calcio italiano.

Toccò per prima a Noemi subire le critiche per una imprecisione vocale nell’esecuzione a cappella del brano. Era il 2010 e, nella finale di Coppa Italia, la cantante aprì così le danze, quasi costretta dagli espertoni del web a scusarsi per la stonatura. Lo fece, con eleganza e autoironia.
Andò molto peggio dieci anni dopo a Sergio Sylvestre che, assediato dall’emozione, dimenticò le parole a metà inno. Apriti cielo. Il tifoso, già pronto a ringhiare per quella finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus, non perdonò in alcun modo una dimenticanza simile. In effetti brutta, forse anche imbarazzante. Ma considerando che la metà di quel pubblico, probabilmente, conosce a memoria solo le canzoni di certi trapper, vien da chiedersi da quale pulpito si possa pronunciare una predica a un cantante impegnato nella sua performance.
L’ultimo caso riguarda Arianna Bergamaschi. La cantante, una tra le più apprezzate all’estero, nonché motivo di orgoglio da anni per il nostro Paese, ha intonato due giorni fa l’inno sempre a cappella, come da tradizione. Questa volta si giocava la finale di Supercoppa Italiana tra Inter e Juventus. Nessuna stonatura evidente, nessuna imperfezione. Arianna ha semplicemente cantato con il suo stile, con un’interpretazione ovviamente diversa da quella di tutti gli altri cantanti. E che altro deve fare un cantante pop? Niente, per il web l’inno è stato “troppo personalizzato”. I commenti piovuti a catena sono stati dei più perfidi: “Ecco come rovinare l’inno”, nel migliore dei casi, si è alternato a meme con le facce di alcuni vip impietriti (per altre situazioni) e la scritta “La reazione dopo aver sentito Arianna”. Buffi, ma non troppo quando tutto ciò diventa accanimento. A questo si aggiungono i titolacci dei giornali che, a partita ancora in corso, commentano: “Arianna canta, l’ironia del web si scatena”. Anzitutto non è ironia, ma sarcasmo (differenza sottile, che un giornalista dovrebbe però conoscere). Ma che motivo c’è di alimentare odio mettendo benzina sul fuoco? Il funzionamento dei social, ormai, lo dovremmo conoscere tutti. E infatti da quel momento si è scatenato il gioco a chi facesse il commento più divertente/perfido nei confronti della cantante, andando a toccare in qualche caso la sfera personale. Magari sono anche gli stessi che ostentano una difesa per le donne. Va ricordato che molti sono stati anche i commenti positivi ma, ovviamente, tutti hanno dato risalto a quelli più cattivi. Così alcune testate giornalistiche sono ormai il megafono della rozzaggine. Di quelli che iniziano la serata sentendosi Riccardo Muti e la finiscono credendosi Trapattoni. Niente da fare, tutti contro Arianna. La quale, va detto a difesa di un prodotto musicale al contrario gradevole, non ha sbagliato nulla: ha semplicemente cantato l’inno nazionale con uno stile pop, dandogli (con la sola voce, nel gelo pazzesco di Milano del 12 gennaio) un sound internazionale. Basta riguardare su Mediaset Play l’inizio della partita per accorgersene.
Tutto questo, che all’estero sarebbe applaudito, non è stato apprezzato. Si può accettare che chi segue il calcio non si interessi necessariamente di musica. Ma questo potere dei social di far commentare chiunque, ora deve smettere. Ci vorrebbe una patente per postare i propri pensieri. Sei tifoso? Parli di calcio. Acquisti dischi durante l’anno? Puoi parlare di musica. Sempre, però, con il dovuto rispetto per chi lavora. Due anni fa si diceva dovessimo tornare migliori. Qualcuno è solo tornato…
Massimiliano Beneggi