Intervista ad Antonio Catania: Difficile ironizzare in questo momento. Mi manca contatto fisico del teatro

Quante volte abbiamo immaginato, in questi giorni, di trovarci in un futuro non troppo anteriore, con qualcuno che ci dia una bella notizia rassicurandoci che tutto è finito e si può tornare alla normalità? Forse infinite, e desidereremmo vivere quel momento proprio con la medesima ironia e il sorriso che trasmetteva il tenente Carmelo La Rosa nel film Mediterraneo, quando atterrava sull’isola greca confortando i militari italiani della caduta del fascismo e dell’armistizio con gli americani. Tre anni che siete qui? Non ci posso credere, in Italia ci sono un sacco di possibilità, i nemici sono diventati amici e gli amici sono diventati nemici. Vorremmo essere anche noi già in quel momento in cui ci verrà detto che l’Italia sarà rinata con la guerra alle spalle.

Quel momento arriverà, dobbiamo essere fiduciosi e rimanere uniti senza mai abbassare la guardia fino a che non arriverà Carmelo La Rosa, interpretato nel film di Salvatores da uno degli attori più amati in Italia per il suo sarcasmo e la sua rigidità fisica che lo rende inevitabilmente comico non appena parla: Antonio Catania.

Impegnato in questa stagione con due spettacoli teatrali (Anfitrione e Se devi dire una bugia dilla grossa), e in procinto di girare altri due film, Antonio è un’icona del nostro cinema e della televisione. Ai film cult quali Camerieri, Il Caimano, Chiedimi se sono felice, La peggior settimana della mia vita, solo per citarne alcuni, ha affiancato ruoli in fiction memorabili come Dio vede e provvede, Il giudice Mastrangelo, Ho sposato uno sbirro, Benvenuti a tavola. Nell’attesa di rivederlo presto sul palcoscenico (al Manzoni di Milano sembra sia previsto a ottobre il rinvio, ma sono in forse anche le date di maggio delle altre città) dove, nella commedia di Pietro Garinei, interpreta De Mitri, onorevole al Parlamento ma ben poco nella vita coniugale, abbiamo voluto incontrarlo. Naturalmente, solo via telefono.

Antonio in questo periodo di quarantena in cui tanti alternano noia e preoccupazione, ci sono tanti sceneggiatori, artisti e autori che sicuramente stanno scrivendo pagine da romanzare, ispirate anche alla difficoltà del momento. Tu come trascorri questo periodo?

Sto a casa ovviamente, esco soltanto un paio di volte alla settimana, munito di mascherina, e sono anche fortunato avendo il supermercato sotto casa. Sto leggendo molto più del solito, mi divido il tempo tra email, social e contatti continui con gli amici, e aiuto il mio bambino a fare i compiti. E poi soprattutto sto recuperando un sacco di serie televisive e film che altrimenti non avrei tempo di guardare.

Quali ti appassionano?

Mi piace particolarmente Il Metodo Kominsky con Michael Douglas nei panni di un attore anziano con tutti i problemi di una certa età: si raccontano un metodo teatrale, valori di amicizia, sentimenti, confronto col più giovane: è scritta molto bene, c’è un po’ di tutto. Non so perché mi faccio sempre appassionare in generale dalle fiction d’azione in cui le situazioni familiari si mischiano con vicende molto più grandi, quasi assurde, come il castello della droga…Alcune sono molto belle, altre invece non mi entusiasmano molto, come Yellowstone con Kevin Costner.

La tv è cambiata profondamente negli ultimi anni anche per le fiction: l’arrivo delle tv satellitari e di Netflix ha frenato alcuni prodotti italiani che hanno sempre funzionato molto bene.

E’ cambiata moltissimo. In queste nuove serie i cast sono importanti e costruiti ad arte, persino in quelle più brutte, come Freud. Gli attori sono scelti apposta in quanto sono perfetti per interpretare certi personaggi disegnati su di loro. C’è un grande lavoro di straordinarie sceneggiature: probabilmente hanno anche molti più soldi di quanti non ce ne siano in Italia per realizzare certi prodotti. E poi un tempo c’era più possibilità di improvvisazione, si potevano creare più cose, situazioni divertenti. Eravamo meno controllati.

Da chi?

Dai registi e dalle reti stesse, che oggi contano molto di più secondo me. La scrittura è molto più controllata oggi, si possono cambiare solo piccole cose, non esiste più il potere di inventare una scena. Anche le reti generaliste sono diventate più rigide: è come se ci fosse una professionalità in più che divide i ruoli in maniera più netta perché ciascuno tenga botta su quello che gli è stato chiesto di fare.

Quindi così ci si limita al ruolo che gli viene dato dal regista e si esprime meno la personalità dell’attore?

Sì forse è così Bisogna però sempre vedere se ci sono le competenze giuste da parte di chi dirige, perché quello che si giudica è il prodotto finale.

Le nuove serie tv sono la tomba delle fiction italiane a cui eravamo abituati una decina d’anni fa o è cambiato solo il genere?

Ci sono prodotti fatti molto bene anche in Italia, come 1994, Gomorra, pur nel suo dialetto napoletano stretto parlato anche sotto voce, Zero Zero Zero è eccezionale. Se si ha la fortuna di avere un regista così bravo come è stato Sollima ne viene fuori un lavoro fatto coi fiocchi. Le fiction come Il giudice Mastrangelo, Ho sposato uno sbirro si possono vedere quasi tutti i giorni su qualche canale, e il pubblico scrive chiedendo continuamente perché non le si rifacciano. C’è una nostalgia per una tv che forse aveva dei costi superiori. Adesso si spende molto meno: questo forse è il nocciolo vero. Quando facemmo Benvenuti a tavola lo stesso cast lavorò per due serie, ora non sarebbe più possibile. Una volta c’erano un regista importante, il protagonista, il coprotagonista, e tutti i personaggi comprimari interpretati da attori di livello e ne veniva fuori un prodotto di qualità; oggi si ha come regista uno che magari ha fatto l’assistente a qualcun altro, un protagonista importante, un coprotagonista e intorno una serie di esordienti che rappresentano delle scommesse.

In questo periodo di quarantena il mondo della musica si sta unendo molto, complice anche una facilità nei live in streaming. Perché non sembra così anche per il teatro, considerato sempre un po’ una categoria a sè?

Il teatro ha bisogno del contatto fisico, al contrario del cinema o della musica che si possono fare singolarmente, sia come pubblico sia come attori. E’ una cerimonia rituale da fare collettivamente. Molti colleghi fanno dei pezzi in streaming, ma non credo che siano pratiche che arricchiscono il teatro: sono interventi individuali, che peraltro guarda chi già ti conosce. La categoria del teatro in effetti non è particolarmente solidale, non ha una rappresentanza sindacale forte. E’ una categoria un po’ bistrattata, quasi considerata un di più. Quando ci sono le situazioni di emergenza ci si rende conto dell’importanza di tutto quello che si ha quotidianamente. C’è necessità della tangibilità del teatro, di vedersi, discutere dello spettacolo in modo molto diverso da come non si possa fare col cinema.

Il teatro in tv ti convince?

La Rai ha un archivio vastissimo. Ci sono commedie, sceneggiati pensati per la televisione ma girati in teatro. E’ molto diverso da quello che accade dal vivo, ma almeno non sono interventi singoli, bensì c’è una intera compagnia sul palcoscenico.

Ci sono situazioni drammatiche da cui si riesce a tirare fuori spesso qualcosa di ironico e divertente, basti pensare proprio a Mediterraneo. Cosa pensi potremo raccontare con una certa serenità di questo difficile momento una volta che tutto sarà davvero finito?

Il momento non è per niente divertente: c’è tanta gente che muore, la situazione è tragica. La commedia all’italiana è sempre riuscita a tirare fuori la parte ironica con personaggi che in qualche modo se la cavavano sempre anche grazie alla loro maniera di interpretare la vita. In questo momento però è difficile pensare a qualcosa di divertente. Mi ha fatto ridere solo un video che gira su internet: un signore di fronte a due possibilità, la prima delle quali è quella di rimanere in casa con la famiglia per la quarantena, sceglie subito la seconda senza nemmeno ascoltarla. Nessuno vorrebbe essere costretto a restare in casa con la famiglia. Ecco, ci può essere questo tipo di ironia, ma solo per le persone che stanno bene, quelle che stanno male non sono comprese in questo gioco.

In conferenza stampa a settembre, a proposito di Se devi dire una bugia dilla grossa, dicesti che avevate pensato allo spettacolo prima della caduta del governo. Quanto cambia una commedia storica come quella, anche alla luce dei recenti fatti che hanno portato Conte in tv mai come prima?

I costumi cambiano, quindi sicuramente bisogna adattarsi a questo, ma la commedia è molto versatile, come tutta la società. Lo spettacolo si regge soprattutto su delle figure politiche generiche con il loro carisma e la loro credibilità talvolta austera, che si ritrovano ad avere a che fare con un quotidiano piuttosto squallido fatto di relazioni clandestine, tradimenti e istinti sessuali che comandano tutto. In Italia scandali di questo tipo abbiamo visto che non sono considerati più di tanto: siamo meno bigotti di un Paese come l’America o l’Inghilterra dove è nata questa commedia. in realtà. E’ uno spettacolo trasversale: puoi cambiare i nomi ma il prodotto non cambia. Siamo una società intercambiabile, non c’è un aspetto progressivo o conservatore più forte rispetto all’altro. Questa interscambialità giova al gioco che facciamo sul palcoscenico, che è quello degli equivoci.

Massimiliano Beneggi

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