Si scrive Arena Suzuki ‘60, ‘70, ‘80, ‘90, ‘00, si legge Meteore versione Festivalbar. In ogni caso va sempre bene, perché il conduttore di entrambe le vecchie trasmissioni negli anni Novanta era comunque lui: Amadeus. Il direttore artistico del Festival di Sanremo ne sa una più del diavolo (è sempre stato così anche negli anni passati, ma non godeva di quel credito che oggi un po’ ruffianamente gli viene riconosciuto a destra e a manca). Con la sua competenza musicale così ha saputo trasformare una rievocazione di vecchie glorie in un evento incredibile. Tutto nel nome di uno spirito ben preciso: la musica come niente altro è capace di unire diverse generazioni e, quindi, differenti modi di interpretare la vita. Gli anni corrono e tutto cambia, ma le canzoni segnano il tempo esattamente come fa la fotografia: fissano un attimo, riportando alla memoria tanti ricordi lasciando quella bella e illusa sensazione che tutto sia rimasto uguale. Le emozioni che suscitano, ogni volta sono cariche di esperienze ulteriori che nel frattempo si vanno accumulando. In pratica, Arena Suzuki è una bella invenzione che mette la musica al centro della nostra vita, lasciando da parte ogni dato anagrafico. Non esiste età per mettersi a ballare e intonare canzoni, quindi nel pubblico si trovano indifferentemente cinque generazioni e forse anche di più. Per tre serate, nessuno è boomer e nessun altro è troppo moderno: tutti, accomunati dall’amore per la musica, possono ripetere la retorica frase “ai miei tempi”, permettendosi anche di cantare i brani appartenenti ai decenni lontani dai propri. La musica non ha padroni: è di tutti.

Detto ciò, l’evento in tre serate trasmesso da Raiuno in differita (la prima è andata in onda il 23 settembre, la seconda sarà il 27, la terza il 4 ottobre) è diventato una tradizione solo in virtù del ruolo sanremese di Amadeus, ma avrebbe potuto tranquillamente essere inventato e sponsorizzato molto prima. Per esempio, prima di essere costretti ad avere a che fare con Trevor Horn, Alan Sorrenti e tanti altri ormai solo vagamente somiglianti alle loro immagini che ancora ricordiamo (ormai rovinate). In certi casi il tempo ha talmente modificato i fisici e le voci, che alcuni cantanti sembrano più dissimili a se stessi di quanto non possa accadere nelle puntate di Tale e Quale Show. In certi casi il playback (terribilmente sfacciato Adriano Pappalardo) è deprecabile, in altri sarebbe stato auspicabile. È comunque piacevole rivedere quasi tutti i partecipanti. Un piacere che ha lo stesso sapore nostalgico e a tratti malinconico infuso da I migliori anni o appunto da Meteore. Solo che anziché la formula “Dopo tanti anni abbiamo qui con noi l’artista”, qui si usa “E adesso un momento che tutti stiamo aspettando”. Ed ecco che arrivano le Las Ketchup (Asereje). Si poteva fare di più. L’atmosfera è quella del Festivalbar, sia per l’enfasi usata da Amadeus sia per la magica cornice scaligera dell’Arena, ma il contenuto è quello delle trasmissioni revival.

Una pecca evidente: si nota troppo la differenza tra chi continua da anni a essere conosciuto per il solito brano e chi invece ha un repertorio ampio e può permettersi di cantare diversi successi. Tra questi l’inossidabile Iva Zanicchi (Dio ne conservi sempre la gloriosa voce), Irene Grandi, Nek e Renga (bravissimi, ma l’accoppiata li rende più banali delle loro stesse canzoni) o Paola e Chiara. Finché i nomi hanno questo calibro tutto bene, poi si rischiano i dolori. Diciamoci la verità, ad Arena Suzuki ha partecipato chi poteva, non sempre i migliori. Per coprire le importanti assenze, si usa il sapiente escamotage della discoteca suonata da un dj e ballata da un corpo di ballo sul palcoscenico. D’altra parte sarebbe stato impossibile avere Celentano a cantare Prisencolinesionaiciusol o tanti altri. Così, con questa scusa, si possono rievocare anche i cantanti che non ci sono più.

Foto di Luca Brunetti

Quasi tutti i presenti, invece, hanno un solo successo da cantare e troppi di loro se provassero a intonarne un secondo già non li riconosceremmo più. Sono brani a cui non rinuncerebbero mai ma, e questo è ciò che rende più triste la loro partecipazione, che il pubblico riconosce come le uniche canzoni del repertorio. Per questo appare quasi umiliante leggere i nomi di chi si ostina da anni a ribadire di lavorare alacremente su nuovi pezzi, mentre è noto sempre solo per lo stesso brano. Non c’è niente di più imbarazzante della mancata consapevolezza: avere interpretato anche solo un grande successo consegnato alla storia e che tutti conoscono è un pregio, non riconoscere il limite di non saperne creare altri è pessimo.

Per capirci, nella seconda serata ci saranno i Jalisse, Haiducii, Rubettes, Ice Mc, Laid Back. In mezzo a Cuccarini, Berti, Mietta, Minghi e Vibrazioni, i primi cinque spariscono inevitabilmente, eppure a leggere sui loro profili social sembra non si siano accorti di essere le meteore del cast. Quelli che incuriosiscono il pubblico solo per vedere come sono diventati e poter dire “Ah già, quella canzone…”. Peccato però siano poi spariti salvo cercare continua visibilità un po’ ovunque, nel miraggio di non essere più percepiti come opere inconcluse della nostra arte. Ecco, Amadeus è riuscito nel miracolo di farli apparire tutti delle star intramontabili, unendoli e affiancandoli ai grandi (quelle stelle mai cadute e che mai cadranno). Così intanto lui fa le prove generali per la prossima edizione di Sanremo e magari qualcuno lo rivedremo all’Ariston. Arena Suzuki è la sponsorizzazione (super sponsorizzata, come da titolo) della musica a tutto tondo. Stupisce non ci si sia mai pensato di farla prima.

Massimiliano Beneggi